Raccontare


SPAZIO ALLE STORIE CHE NON SONO STATE RACCONTATE ALTROVE. ALLE PERSONE INCONTRATE E RIMASTE SUL TACCUINO. OPPURE A QUEI PENSIERI CHE MI PASSANO PER LA TESTA VELOCI COME UNA PALLOTTOLA: SE NON LI FERMASSI, LI PERDEREI.

lunedì 30 aprile 2012

"A Beirut, oggi...". Sei anni fa.

(c) 2012 weast / Il mio collega Panos Haritos e io a Bint Jbeil, 2006.

Avevamo questa faccia, Panos, il mio collega greco, e io. Sbarbatelli, o quasi. Fuori di sicuro, più' di oggi.
Dentro è un altro discorso. La fotografia ce l'ha scattata un collega greco dell'AP, a nostra insaputa. L'ho ritirata fuori da una scatola e la pubblico per guardarla in modo diverso nel momento stesso in cui scopro, a distanza di sei anni, di essere finito in una composizione musicale che si chiama Echoes of Beirut. La mia voce è finita dentro, ne sono abbastanza sicuro. Si tratta di un brano composto dal gruppo palestinese Checkpoint 303. Nella canzone (nella composizione, meglio) c'è un brevissimo passaggio nel quale si sente la mia voce dire: "Qui a Beirut, oggi...". Sei anni fa. Sembra oggi. Sembra ora. "Qui a Beirut oggi..." lascia aperti tutti gli scenari di quella estate devastante. Il brano è un pugno allo stomaco. Potentissimo. E' una collezione di voci di giornalisti sul terreno, soprattutto inglesi, in italiano ci sono i titoli del TG 1 (li ho ritrovati) e le mie tre parole. Il resto è in inglese. E' un pugno allo stomaco e basta. Il brano in questione lo trovate navigando un po' oltre la pagina di accoglienza e seguendo il menu. Clikate QUI. Incl. date e tappe del tour di Checkpoint 303. Un gruppo da ascoltare e da conoscere.

Testimoni. Di immagini.

Uno scatto della REUTERS. Rendere onore a chi si fa testimone di immagini.

domenica 29 aprile 2012

Arte. E il suo rumore.

(c) 2012 weast productions

The Noise of Cairo (trailer QUI) è un documentario che racconta l'Egitto post-rivoluzione attraverso gli occhi di alcuni artisti, giovani e meno giovani. Anche attraverso le loro opere.  In un passaggio del film una ragazza dichiara: "gli artisti fanno rumore, le autorità li temono". L'arte è uscita dagli atelier e dalle gallerie. E' arte viva. Non credo riesca ancora a imporsi sul rumore del Cairo, quello della città che sembra sia sempre sul punto di esplodere, perché troppo piena, troppo grande. Ma gli artisti producono. E affrontano le domande vere. Anche quelle scomode. Ciò che ti resta del documentario è che il loro rumore riuscirà a imporsi su quello della città.

Mai da sola.



Un consiglio di lettura per chi abbia tempo e desiderio di approfondire l'argomento Hezbollah-Israele e, oltre, Siria-Iran, e oltre ancora Occidente-Medio Oriente. Ricco di scoperte a volte sorprendenti che consentono di capire la storia (non uso maiuscole) e perché la storia (non le uso) prenda, ai suoi crocevia, una direzione piuttosto che un'altra. Mai da sola.

Arrabbiarsi, mai.

(c) 2012 weast productions

In un post recente avevo criticato l'atteggiamento delle Autorità svizzere che avevano impedito a un gruppo di persone di imbarcarsi su un aereo per Israele perché sospettate di nascondere (dove?) l'intenzione di partecipare a una manifestazione filopalestinese a Betlemme. Avevo indirettamente criticato anche l'atteggiamento della stampa svizzera: che aveva (quando è andata bene) riferito la notizia ma si era ben guardata dal porre domande scomode del tipo: queste persone sono schedate, sorvegliate eccetera e se si' in nome di chi, del governo svizzero, di quello israeliano, altro? Se qualcuno le ha formulate, queste domande, me lo segnali, mi correggerei subito. Sempre in quel post avevo scritto che non nutro particolari simpatie (non ne nutro e basta) nei confronti dei manifestanti filopalestinesi (probabilmente loro ne nutrono ancora meno nei miei confronti). Non c'è simpatia perché sono acritici nei confronti delle autorità palestinesi, siano ANP (Autorità nazionale palestinese) o Hamas o altri partiti. A Gaza si sa che chi osa criticare il governo è come se si abbonasse ai guai. In Cisgiordania uguale. "Crackdown" dell'ANP contro la libertà di espressione. Così titolavano recentemente alcune notizie di agenzia. E questo mi confermano contatti sul posto. Alcuni elementi si possono ricostruire con QUESTO articolo e con QUESTO intervento, che costituiscono una scelta rapida e non esaustiva (sono segnalazioni, non condivisione dei contenuti). Nulla di nuovo. Eppure, sul fronte degli attivisti, silenzio. Uno stop autoimposto alla propria capacità di arrabbiarsi. Anche verso i palestinesi.

venerdì 27 aprile 2012

Demotix and Storyful announce citizen news channel

Demotix and Storyful announce citizen news channel

Apologia dell'inquietudine/10

Il lettore anonimo mi ha posto un ultimatum: o pubblico o lui smette di mandarmi racconti. Lo ammetto: sono stato un po' incostante negli aggiornamenti dei suoi post. Ho anch'io, anche se potrebbe non sembrare, le mie due o tre cose da fare. Tuttavia, per sdebitarmi, aggiungo, qui di seguito, il commento che egli acclude alla decima puntata del suo ancora lungo racconto. Il lettore anonimo, in sostanza, scrive che questo blog assomiglia a un fan club, in realtà lui utilizza la parola "pollaio". Me lo aveva già segnalato, a suo tempo, un altro lettore e oggi non ricordo se il suo post era stato pubblicato o se, invece, avevo dimenticato di farlo o scelto di non farlo, diplomaticamente, ritenendo il momento prematuro. Il lettore misterioso ha ragione, certo in parte soltanto, ma insomma, una parte è una parte. Condivido quanto mi confida. E preciso che la riflessione riguarda pochi (poche) iscritti (iscritte), ma insomma qualcosa c'è. Riporto il pensiero dello scrittore spontaneo non per guadagnarmi la sua incondizionata simpatia, ma perché a volte ho davvero l'impressione di essere circondato da balie. Un piccolo esercito di badanti. Alle quali piace la mia immagine di uomo immerso dentro le storie dolorose della vita e che non capiscono nulla dell'uomo a cui la vita piace per quello che è, giusta e ingiusta, dolorosa e divertente, buona e cattiva, crudele e generosa. Una infinita contraddizione. E, di fronte a tale spettacolo, il seguito (sparuto, per carità) di chi prende il mio blog per me. Se volessi parlare di me, me ne starei zitto. Qui parlo degli altri. Il senso del tutto è nelle parole scritte. Le sole a cui chiedere conto. Il mio cordiale e affettuoso appello, sostenuto dall'argomentazione dello scrittore occulto, è questo: leggetevi, se vi piace, questo blog. Ma per favore cercate di assomigliare un po' più a Delia. Ironica. Creativa. Forte. Ora la decima puntata.

Delia era lanciata a cento allora sul ghiaccio della propria anima. I battiti del cuore erano lame che lasciavano sfregi profondi sulla superficie fredda e impassibile. L'incontro con A. era stato un disastro. Dieci anni di silenzio radio avevano inquinato le frequenze di una comunicazione auspicata ma impossibile. Aveva bussato allo studio e si era trovata davanti un ometto ingrassato e impaurito. A. aveva gli occhi gonfi come palloncini offerti il sabato a famiglie disperate in cerca di distrazione nei centri commerciali. Muto. Impaurito. Incapace di guardarla negli occhi. Figurarsi nella bocca. Ciao. E addio. Addio davvero. Il dente l'avrebbe sistemato qualcun altro, la guardia medica, la clinica del pronto soccorso dentistico. O se lo sarebbe strappato con le proprie dita, che sentiva capaci di tutto.
Delia era lanciata a cento allora sulla superficie levigata del suo cuore. Il ritmo dei polmoni (aria dentro, aria fuori) trasmetteva al suo sistema nervoso energiche frustate da dopo sauna fillandese. Il bar. Il baaaar. Sapeva che sarebbe dovuta tornare da L., per accertarsi che fosse ancora in vita il poveretto. Prima (prima) si sarebbe fatta un goccetto. Gin tonic, niente di che. Quanto basta per darsi la carica. E affrontare L., che la scarica, quella elettrica, se l'era presa un giorno prima. Meritata. Dal primo volt all'ultimo.
Delia che apre la porta del bar. Delia che il ritmo del suo cuore scende e si trasforma in un delizioso richiamo per chi lo sa ascoltare. Delia che mette un piede dopo l'altro. Delia che fa un passo dopo l'altro. Delia che si sente addosso lo sguardo di tutti, o se non proprio almeno di quelli che meritano. I suoi occhi, lenti come la parabolica di un radar a bassa frequenza, trasformano il locale in terreno di caccia. Si faccia avanti il piu' coraggioso. E sia mooolto prudente. O avventato. Il gesto rapido della mano destra di Delia, proiettata dalla tasca dell'impermeabile leggero verso la fronte, colpisce un ciuffo ribelle ma delizioooooso dei suoi capelli che cedendo alla imperiosa dinamica motoria rivelano la scritta immaginaria ma inequivocabile: io non perdono.  

L'immaginazione e i kalashnikov.

(c) 2012 weast productions

Domani nel Senso del taccuino sulla Regione: Due pistole nella mia testa.

lunedì 23 aprile 2012

Protagoniste.

(c) 2012 weast productions
Mi piace questa fotografia. Per la storia che racchiude. Grande città nel Medio Oriente. L'uomo, sullo sfondo, vuole rendersi utile: salta in mezzo a una strada trafficatissima e si sbraccia per lasciare che l'auto su cui siedono le due ragazze possa abbandonare il parcheggio trovando uno spazio nel fiume inarrestabile di automobili. In mezzo alla strada c'è rimasto quindici minuti. Prima le ragazze hanno dovuto, nell'ordine: telefonare, mandare messaggi, cercare nelle rispettive borse soltanto loro sanno che cosa, scambiarsi le ultime confidenze, telefonare ancora, rispondere alle risposte ai loro messaggi di prima, ridere, decidere dove andare. E poi, ancora: guardare impassibili il signore in mezzo alla colata di lamiera bollente e strombazzante, fare come se non esistesse (non fosse mai esistito, per i precedenti quindici minuti sacrificali), dare gas, costringere un'altra automobile a una frenata devastante, ignorare la macchina e l'uomo che al volante urla fuori di sé, sgommare, sfrecciare via. Felici. Padrone del mondo. Di quello di oggi. E di quello che, nel Medio Oriente, verrà. Protagoniste.

venerdì 20 aprile 2012

Apologia dell'inquietudine/9

Il cervello di A.: come un vecchio motore. 

Una nuova puntata. Mandata dal lettore/autore. Pubblicata con un po' di ritardo, poiché sono stato, come dire, in mezzo a deserti lontani. 

A. era alle prese con i suoi fantasmi. Fottutissimi. Fantasmi. Si'. La sua testa era finita dentro un mulinex. Una casalinga incattivita teneva un dito muscoloso sul pulsante. L'elica girava e girava. Trasformava in tiramisu' il cervello di A. Le connessioni nervose trasmettevano messaggi in codice ormai leggibili da ogni stazione d'ascolto. “Alza il braccio destro” era captato dalla stazione dell'appetito che lo trasformava in un “manda giu' un panino che è mezzanotte passata”. E via. Via cosi'. Qualcuno era entrato nel suo cervello ordinato come un salone dove vengono esposte automobili. E ci aveva messo il caos. Aveva chiamato Delia, come se non bastasse. Dopo dieci anni. Perché non lo aveva dimenticato? Doveva avere fatto qualcosa di sbagliato, altrimenti l'avrebbe dimenticato. Aveva detto che sarebbe passata domani, nel suo studio, per una storia di denti. Per un dente... Un dente... Non ricordava altro. Il messaggio era stato captato dalla stazione d'ascolto della temperatura. E aveva mandato il termometro interno di A. a livelli d'allarme. Solo che l'allarme nel suo cervello non suonava piu'. Messo male. Disconnesso. Staccato dalle radici. Sobbalzava come un piccolo aereo fra nuvole gonfie di bugie mai confessate. E desideri mai comunicati. Domani sarebbe arrivata Delia. Doveva parlarne con L. Di nuovo. Maledizione. Occupato. Occupato, a quest'ora?  

domenica 15 aprile 2012

Apologia dell'inquietudine /8.

Nella notte di Delia: libri?


Continuiamo con la pubblicazione del racconto proposto dal nostro lettore. Si è rifatto vivo. Domani è lunedì. Lavora. Ha trovato il tempo di mandarci l'ottavo capitolo. Delia, questa volta. Alle prese con...

Wow. Stava meglio. Aveva perso un dente ma gliene restavano 31. Poteva viverci. Ci stava. Te ne sei voluto andare? Cadere? Lasciarmi? Fottiti! Delia era uscita dalla doccia ed era entrata in un nuovo mondo: un piede ancora umido dopo l'altro ancora umido. Vi era scivolata dentro, portata dalla patina luminosa che l'acqua aggrappata ai suoi piedi aveva lasciato sul parquet. Cadendoci sopra come un acrobata che si sgancia dal trapezio. E che già sente la rete di sicurezza sbattergli sulla schiena, come la sberla di un'innamorata: sciocco, che paura mi hai fatto prendere! O Delia. Oooooooh Delia. Stesa sul divano grigio antracite del suo salotto aveva preso in mano il telecomando. Distratta, uguale uguale come faceva il mattino, quando al bar prendeva la brioche dalla vaschetta di plastica con il coperchio scorrevole, gli occhi ancora chiusi (o quasi) e la tuffava nel cappuccino. E c'era sempre quel figo di un cameriere che la guardava a scatti, tac, tac, tac: puntandole addoso il kalashnikov del suo sguardo e scaricandole addosso una raffica di pupiiiille.
Zap! L'immagine si era presentata dal nulla, sullo schermo. C'era qualcuno che parlava di... parlava di.... Di cosa parlava? Non era il cameriere. Era un altro. Sembrava un maggiordomo. O forse era una voce femminile, una voce soltanto, di donna? Raccontava qualcosa, lunghe frasi appese a elaborate immagini. O era il contrario? Elaborate immagini appese a lunghe frasi? Anzi, no: parole tuffate dentro la marmellata. Questa, invece (la marmellata! Sveglia, lettoreeee....), Delia la risparmiava alle sue brioche. Frasi marmellatose. Esiste questa parola? Quel signore (o quella signora?) parlava di libri, si', di libri, di letteratura, poesia, romanzi, finzione. Spalmando tutto di marmellata. Che ore sono? Mattina presto. A quest'ora? Libri, a quest'ora? Diceva qualcosa del senso della vita, affidata a un racconto-sgorgato-da-una-prosa-sorvegliata-e-felice. Diiiiiiio.
Delia aveva impugnato il telecomando, preciso preciso, come guidata dal GPS montato su un missile Tomawak. E aveva schiacciato il pulsante rosso. OFF. Ma come per dire ON. Come ad armare il missile montato sull'elicottero Apache. Un missile, si capisce, letterario. Una figura retorica. Sgorgata-da-una-prosa-sorvegliata-e-felice. Delia era quasi contenta di avere appena perso un dente. Almeno, non soffriva più. Non più di tanto. Il sonno era venuto a prenderla. Vincendo la timidezza. Uscendo nudo dalla notte. Vieni via con me. Lascia che ti mostri paesi nuovi. E ti faccia scoprire lingue diverse. Oooooh.

Tu non voli.





Dalle agenzie stampa di oggi, 15.4.2012:


"Su richiesta di Israele, molti attivisti pro-palestinesi sono stati bloccati stamane in diversi aeroporti europei, fra cui Ginevra e Basilea, mentre cercavano di partire per Tel Aviv, per poi raggiungere Betlemme nell'ambito della campagna «Benvenuti in Palestina», già organizzata gli scorsi due anni per protestare contro le limitazioni alla
libertà di movimento in Cisgiordania". 


E ancora:


"European airlines have canceled tickets for an unspecified number of passengers planning to attend the pro-Palestinian activist gathering after Israel raised objections.

French carrier Air France and British low fares airline Jet2.com said Saturday they had joined Germany’s Lufthansa in cancelling seats on flights to Tel Aviv.

At Geneva airport a hundred pro-Palestinian activists were being prevented by Swiss police early Sunday from boarding a flight bound for Tel Aviv, the “Welcome to Palestine” campaign said".



Non nutro una particolare simpatia per gli attivisti filopalestinesi: li ritengo sprovvisti di approccio critico nei confronti degli stessi palestinesi, in particolare della loro classe politica, sia Fatah (Autorità Nazionale Palestinese), sia Hamas e altri gruppi. Una lacuna dannosa alla causa di uno stato indipendente. Dell'indipendenza e della dignità stesse. E tuttavia, sono persone che si mobilitano, che dedicano il proprio tempo a altri. Su quali basi (giuridiche, prima ancora che etiche e morali) la polizia svizzera viene schierata all'aeroporto di Ginevra e incaricata di individuare gli attivisti, da mantenere a terra su ordine dello Stato di Israele? Quali i criteri adottati? Schedatura preventiva, sorveglianza poliziesca, tratti somatici, abbigliamento? Dovrebbero dircelo le autorità del Cantone di Ginevra e quelle federali di Berna. Sono forse, questi criteri, i medesimi adottati per gli hooligans colmi di birra in procinto di saltare su un treno verso una partita di calcio? O sono criteri politici? Nessuno dei passeggeri respinti avrebbe - stando agli organizzatori - partecipato a dimostrazioni in Israele. Destinazione: Territori palestinesi. Che sono una cosa diversa. E allora? La decisione di alzare un firewall in Svizzera è inaccettabile, sotto tutti gli aspetti. La Svizzera chiede al contribuente - senza davvero chiedere - di partecipare finanziariamente agli sforzi diplomatici degli "Accordi di Ginevra". Falliti da tempo, su tutta la linea, puro esercizio accademico. Anche se a Berna nessuno lo vuole ammettere, e come potrebbe? La solidarietà manifestata (e beninteso in una cornice pacifica) e a proprie spese non piace. Fra due settimane, nel Senso del taccuino sulla Regione, la storia di un altro firewall alzato dalla Svizzera verso i Territori palestinesi. Anche questo: non accettabile.   

venerdì 13 aprile 2012

Quella follia generata dall'uomo.

(c) 2012 weast productions /gg
Sabato 14 aprile nel Senso del taccuino, sulla Regione: Quella follia generata dall'uomo. Nella foto Mohammed, uno dei protagonisti del mio articolo.

mercoledì 11 aprile 2012

Colonialismo di ritorno. E i suoi muri.

Un muro in fase di costruzione a Homs (credits vedi testo)


La fotografia è stata lanciata su Twitter dall'utente Samsomhoms, che da settimane invia messaggi da Homs, città martoriata dalle bombe in Siria. La didascalia recita: il regime siriano continua a costruire il muro che separerà Inshaat da Baba Amr nella città di Homs. Quindi: separazione di un quartiere alawita da un quartiere sunnita. Come a sancire un'impossibilità: quella di non farsi la pelle a vicenda. La primavera siriana è stata trasformata in una guerra confessionale. I segnali li avevamo raccolti già agli inizi dei moti in Siria. E' inoltre curioso constatare come il modello israeliano abbia definitivamente fatto scuola in Medio Oriente: quando non vuoi vedere una realtà, alzi un muro e fai finta che dietro non ci sia niente. Dietro il muro, in Israele, ci sono i palestinesi dei territori, con i loro diritti, le loro rivendicazioni, le loro aspirazioni. Dietro i muri di Bagdad c'è lo scempio compiuto dagli americani, risultato di una campagna militare nutrita dall'ignoranza, ma anche da una strategia gelidamente architettata: ridurre una nazione in ginocchio, farla a pezzi come una bolletta che non vuoi pagare. Dietro i muri dell'Afghanistan non ci sono soltanto ambasciate da proteggere: c'è la dignità di un popolo intero, lasciato in ginocchio come l'Occidente lo aveva trovato nel 2001, dopo le bombe dei B52 americani e l'avanzata verso Kabul e oltre aperta dall'Alleanza del Nord. Dietro i muri in fieri della Siria c'è forse un disegno che è soltanto apparentemente opera del regime e che in realtà sarebbe - mi pare essere - (nelle sue ipotizzabili implicazioni transazionali) simbolo e manifestazione di un progressivo statu quo regionale: frantumare il Medio Oriente in una serie di isole confessionali, annacquare il panarabismo riacceso dalle rivoluzioni, neutralizzare il potenziale di riscossa umana e umanistica innescato dai moti di popolo (parlerò dei successi dei partiti religiosi in un post di prossima pubblicazione). Lo definisco neocolonialismo a distanza, o colonialismo di ritorno. Vale a dire interpretato virtualmente. Senza davvero esserci, senza davvero colonizzare. Basta la frantumazione. Bastano i muri. In Palestina come in Iraq, in Afghanistan come in Siria.

martedì 10 aprile 2012

Follia, neo-orientalismo e carte truccate.

Una lettrice, su Facebook, mi chiede che cosa ne pensi, io, del polverone suscitato dal testo di Guenter Grass che ha per argomento la potenza nucleare israeliana confrontata alle velleità radioattive dell'Iran e più' in generale alla "già precaria pace nel mondo". Pensavo di potermela cavare facendo all'incirca sembianza di nulla. L'argomento non mi entusiasma.
Rispondo allora sinteticamente: voglio andare controcorrente, lasciando agli altri la discussione sui torti e le ragioni, la rabbia e l'incredulità, la soddisfazione e il consenso riscontrati dal testo. Segnalo il passaggio finale, nel quale Grass scrive di una "vom Wahn okkupiert(e) Region" nella quale i popoli vivrebbero (vivono, dice Grass) "dicht bei dicht verfeindet". Mi appassiono agli aspetti che gli altri trascurano.
La "follia" occuperebbe, stando al premio Nobel per la letteratura tedesco, questa regione del mondo (il Medio Oriente). Riconosciuti tutti come pazzi andrebbero anche riconosciuti tutti come non sottoponibili a giudizio. Cio' che confuterebbe quanto Grass scrive nel suo testo: il suo intento di indicare delle responsabilità. I pazzi sono -  per definizione - irresponsabili, non giudicabili né tantomeno processabili. E' qui, in questo passaggio, che Grass cade vittima di una visione neo-orientalista del Medio Oriente. Un neo-orientalismo (per il significato di "orientalismo"vedi i testi dello scrittore palestinese Said) che riducendo la violenza che in Medio Oriente si consuma a follia, esalta i torti degli uni (pazzi) e ridimensiona i diritti degli altri (pazzi anche loro), e viceversa. E' un criterio inaffidabile, perché manipolabile secondo il punto di vista al quale si sceglie di aderire.
Insomma, se la follia sostiene, come sembra credere Grass, la corsa all'atomica iraniana e soprattutto la gelosa salvaguardia dell'atomica israeliana, la stessa follia deve per forza e per logica essere alla base di altre non  trascurabili questioni: delle rivendicazioni palestinesi, di chi fra i palestinesi sceglie la lotta armata o di chi invece crede all'azione pacifica, così come di chi, fra gli israeliani, vuole costruire colonie su colonie o chi, invece, è animato da sincere inquietudini e dal desiderio di convivere. Se sono tutti pazzi, allora nessuno è davvero responsabile, rinviabile a giudizio, perlomeno a quello della storia.  Il Medio Oriente non è occupato dalla follia. I popoli non sono "verfeindet" (nemici) per pazzia. Non credo nemmeno che siano davvero nemici in Medio Oriente, i popoli. Non credo in sostanza a questa visione neo-orientalista, che culla il mito di popoli sanguigni, reattivi (più che riflessivi), teste calde. Se accetti che sia la follia a regnare su tutto rinunci a individuare le cause vere all'origine della realtà. Il Medio Oriente è un tavolo da gioco. Attorno al quale, concentratissimi, giocatori occulti (ma nemmeno tanto) si affrontano fra bluff, carte fortunate e carte truccate.

Apologia dell'inquietudine/7

Andava pazza di scarpe, profumi, jeans e auto sportive.


Se c'era una cosa che nella vita le dava piacere. Odddddiiio se le dava piacere. Se c'era una cosa che nella vita le dava piacere, allora era quella. L. ridotto male. Ridotto cosi'. Un corpo senza energia dentro. Meglio: un corpo che si credeva morto. Lei si sentiva invece viva. Viva. Avvolta nella mantellina nera, di lana fine e leggera, che le copriva anche il capo. Un fantasma uscito dalla tenebra. Un corpo meravigliosamente bianco e liscio e profumato avvolto dalla lana. Notturna. Passeggera e inesorabile come un pensiero. Basta cosi' poco per mettere ai maschi una paura blu.
Che beeeello sentirsi corpo e cerveeello. Aveva pigiato sul tasto rewind della sua meravigliosa ed elegante massa grigia. Vai-indietro. Ri-bo-bi-na. Ed ecco la conclusione di quell'atto compiuto sulla soglia dell'appartamento di L. Simile alla decisione presa negli show room che frequentava con la leggerezza di uno spiffero d'aria che ti rincorre in una giornata non fredda eppure non ancora del tutto calda. Piacevole. Fino-a-un-certo-punto. Una conclusione spiazzante, doveva ammeterlo.
Se c'era un acquisto che era valso la pena era quello. Non le scarpe di cui andava pazza, non i profumi che adorava, non i jeans attillati che venerava, e nemmeno le automobili che guidava veloce col piede incollato sul gas della fuoriserie, quasi puntellasse un muro in procinto di rovinarle addosso. La pistola elettrica era stata l'acquisto della sua vita. Della sua vita di dooooonna adulta.
L. era caduto a terra come una marionetta a cui avessero tagliato i fili. Una scarica e via. Risvegliandosi, lontano da casa sua (non più a casa, noooo) avrebbe successivamente avuto piena consapevolezza del ridicolo della situazione. Niente lama calata sul collo. Una banale scarica elettrica. La stessa che lui pensava trasmettesse alle donne, guardandole soltanto. La sua, pero', non aveva mai nulla di banale. O almeno, cosi' pensava.  

lunedì 9 aprile 2012

La chimica e la democrazia.


Nell'edizione online del Guardian di lunedì', 9 aprile, trovo questa informazione, ulteriormente sviluppata nell'articolo in questione.
Future riots could be quelled by projectiles containing chemical irritants fired by police using new weapons that are now in the final stages of development.
The Discriminating Irritant Projectile (Dip) has been under development by the Home Office's centre for applied science and technology (Cast) as a potential replacement for plastic bullets.

Quella che potrebbe sembrare una "buona notizia", e cioè lo studio di alternative ai proiettili d'acciaio ricoperti di gomma ("plastic bullets") utilizzati per il cosiddetto "riots control", in realtà una buona notizia non è. Agenti chimici vengono già correntemente utilizzati per "gestire" dinamiche di massa: sono i cosiddetti gas lacrimogeni + spray al pepe+ acqua sparata dai cannoni con aggiunta di materiali irritanti, che contengono sostanze di ogni tipo, molto spesso non specificate, molto spesso causa di arresti cardiaci e respiratori in soggetti sottoposti a forte stress o predisposti per natura (mi riferisco alle zone del mondo che frequento io e ai casi di cui sono stato testimone oculare). Francamente mi potrebbe anche andare bene che tali sostanze vengano usate per condurre a più miti consigli tifosi scalmanati e masse motivate da simili propositi, cioè dallo spacco tutto perché non mi va bene niente (non mi stanno simpatiche, e tuttavia escluderei la chimica anche per queste). Tuttavia, quando si parla di "riots", con l'aggettivo "future", deve suonare un campanello d'allarme. Si parla, cioè, di moti collettivi, senza specificarne la natura e quindi senza escludere quella pacifica. Si stanno cioè studiano, a uno stadio avanzato, sistemi di controllo delle masse. Driiiin, campanello d'allarme. Manifestazioni per la democrazia, per la libertà di espressione e di stampa, per una politica migliore e più' responsabile, per la pace, per uno Stato palestinese, per la fine della mattanza in Siria, per il rispetto dei popoli dell'Afghanistan e dell'Iraq, per un'Europa non asservita alla Banca centrale, alla Germania, ai banchieri, all'euro, ecc.: rientra tutto in questa definizione di "future riots". E rientrano anche queste manifestazioni nell'azione neutralizzante (soltanto?) dei Discriminating Irritant Projectiles, in tre lettere Dip. Da seguire e documentare. 


Apologia dell'inquietudine/6

 La fine di L. 

Sesta puntata del nostro racconto. Lo scrittore, trascorsi alcuni giorni di ferie (non ha detto dove), mi manda la descrizione dell'epilogo dell'esistenza di L. E io pubblico. 

La porta si era aperta. Guardalo. Guardalo. E guardalo. La figura nera se ne stava immobile sulla porta e guardava L. Sembrava un pesce d'altura imbalsamato e sistemato su una parete. Un trofeo per figli, nipotini e figli dei nipotini. Immobile nel solo istante della sua vita che sarebbe stato ricordato. Per sempre. Con tutte le cose che ci sarebbero state da dire. Da sottolineare. Da spiegare. Da rivangare. Diciamolo: da ricordare. Niente. Sarebbe finita così, dentro una cornice inchiodata alla parete di una baita in riva al mare. Metafora, si capisce. Perché la casa di L. era in centro città e attorno a lui, in quell'istante, respiravano due milioni di persone. Tutte insieme. Un frastuono insopportabile di polmoni che si riempieno e si svuotano d'aria. In. Out. Lui avrebbe soltanto ancora inspirato. I suoi occhi lo sapevano. L'avevano saputo prima del suo cervello. La figura vestita di nero fissava L.
E L. ricambiava lo sguardo. Si era sempre creduto invincibile. Impenetrabile. Un duro che ci sapeva fare. Con la vita. E con i vivi. Adesso non sapeva più nulla. Stringeva nella mano destra la maniglia della porta. Due punti. L'aria gli usciva dai polmoni, tutta quanta, e poi una volta ancora rifaceva ritorno, dentro, al caldo, faceva il pieno. Adesso L. aveva la faccia di un pesce lesso. Oooooo. Altro che pesce d'altura. I polmoni facevano il pieno per l'ultimo viaggio, verso un luogo sconosciuto. 
La figura vestita di nero osservava compiaciuta gli occhi verdi di L. che sapevano ormai tutto. L'avevano riconosciuta. Uhuhuhu, che sorpresa! Una donna. 
La lama era scesa rapida sul collo di L. Lama che fa rima con m'ama, aveva fatto in tempo a pensare L. Prima che la notte scendesse sulla notte. E la fine si portasse via quella enorme bugia che era stata la sua vita. 
V-i-t-a-a-a-a.....

domenica 8 aprile 2012

Oz contro Grass.

(c) 2012 weast productions
Lo scrittore israeliano Amos Oz reagisce alla recente poesia di Guenther Grass, nella quale il premio Nobel per la letteratura tedesco definisce Israele "minaccia alla pace nel mondo". Intervista in esclusiva - nella quale si parla anche di Iran e di letteratura come strumento per la pace - sulla Televisione svizzera RSI 1 alle ore 20.00 (Telegiornale). Successivamente visibile sul sito WEB. Grass è stato dichiarato domenica 8 aprile persona non grata in Israele. Intervista raccolta in esclusiva dall'agenzia giornalistica Weast Productions. Trailer se clicchi QUI. Il link al TG QUI.

sabato 7 aprile 2012

I nuovi martiri.

(c) 2012 weast productions
RSI 1 ripropone il mio documentario I nuovi martiri, dedicato alla popolazione cristiana in Iraq domenica 8 aprile alle ore 20.45 a Storie. Avevo girato questo film nel 2010, quarta parte di una serie sui cristiani in Medio Oriente pensata per dare una lettura diversa al Natale. Molte delle vite di cui parlo hanno preso direzioni diverse: qualcuno ce l'ha fatta a emigrare in un altro paese, altri sono ancora in Iraq. Non sono sicuro che tutti i protagonisti siano ancora in vita. Esistenze che mi sarebbe piaciuto continuare a raccontare. Il film QUI.

Cairo Exit.

(c) 2012 weast productions

Domenica 8 aprile a Cult TV la storia di un film che parla d'amore oltre gli steccati della religione, di sogni rincorsi e della censura a cui i sogni non piacciono. Tantomeno l'amore che abbatte i muri. Su RSI 1, domenica 8 aprile, ore 21.55. Il film si intitola Cairo Exit, il regista è Isham Issawi. Trailer QUI. E il link alla trasmissione QUI.

giovedì 5 aprile 2012

Apologia dell'inquietudine/5

Una porta aperta: come una scatola di tonno.

Mi affretto a mettere online questo aggiornamento. Mi è appena giunto con preghiera di pubblicazione repentina. Obbedisco dopo averlo leggermente ripulito di qualche (trascurabile) refuso.

L. aveva aperto la porta come apriva le scatole di tonno. Imprecando. E tagliandosi un dito. Una goccia di sangue era caduta sul legno del pavimento. Pesante come una pallina di mercurio. Uno scintillio freddo gli aveva restituito l'espressione sorpresa e terrorizzata del suo volto. Avrebbe dovuto capire da quello sguardo riflesso dall'emoglobina che qualcosa non andava. Troppo tardi. La porta era spalancata. Ormai. Criiisto saaaaanto. Non credeva ai suoi occhi, al poco che restituivano. Catturati dal buio che si stava impossessando senza esitazione di lui. I denti, come gli capitava da bambino provando freddo, avevano cominciato a battergli. Tacatacatacatac.... Che strano rumore: di vecchie pantofole su un vecchio pavimento. Che immagine teneraaaa in un momento come quelloooo. Pauuuura a mille. Il nuuuuulla.

Apologia dell'inquietudine/4

Delia, forse?


Ecco la quarta puntata del nostro feuilleton di primavera. Pubblico mano a mano che l'autore misterioso (è stato soprannominato così dai lettori) mi manda i capitoli, che io controllo, sistemo un pochino e poi metto online. Lui sostiene che non ci sia nulla di biografico, io chiarisco che non c'è nulla di autobiografico. E' un racconto, un'invenzione. Commenti eccetera per cortesia sul blog e non su mail privata. Buona lettura.

Delia aveva lasciato l'appartamento di L. con l'aria di una che al check-in ti passa davanti senza chiedere permesso, ti frega la fila, imbarca dodici valigie, litiga con l'impiegata della compagnia aerea, chiede di parlare con il direttore, si fa passare l'assistente e giura che la storia finirà davanti all'amministratore delegato, che-lei-conosce-bene. E tu sei li' a darti dell'imbecille perché la tua mente comincia a chiedersi quanto bene lo conoscerà, anche se tu non c'entri proprio. E invece di incazzarti, ti chiedi se si sia rifatta il seno o se quella generosa esposizione di rotondità possa davvero essere natura viva. Ed è soltanto una volta a bordo, a undicimila metri d'altezza, che ti togli la curiosità e ti prendi la rivincita sulla storia delle fila al check-in: quando, cioè, l'amica dell'amministratore delegato chiama la hostess e, piangendo, anzi piangendo allarmata, le sussurra trattenendo il bisogno di urlare che c'è un'emergenza, che l'aereo deve scendere. Che le è esplosa una boccia. Dunque: natura morta. In fondo avevi visto giusto.
Delia se n'era andata dall'appartamento di L. con la stessa faccia che la povera ragazza implosa aveva fatto sopra le nuvole. Fiera. Mortificata. Inviperita. Il dente che le era saltato poco prima se lo teneva nel fazzoletto, ma già lo vedeva pendere da un filo di cuoio attorno al suo collo, insieme a quello che avrebbe fatto saltare al dentista, con il pugno che stava architettando e che gli avrebbe dato (o ma quanto daaaaato) la mattina seguente. Bastardo! Buono a nulla! E fesso, ma quanto feeeeesso, lui che ci provava ogni volta.
Delia detestava trascorrere tutto quel tempo allungata sulla sedia, su quella specie di letto matrimoniale freddo e sintetico, stesa come un insetto a cui lui, dall'alto ma con la faccia vicinissima, guardava ovunque fuorché in bocca. Detestava quella sua aria da amante consapevole che in una camera d'albergo ti si avvicina perfettamente sbarbato con addosso una vestaglia scura con le iniziali del nome (come se importasse davvero, un nome...) ricamate sul taschino. Detestava essere nelle sue mani. Detestava le caramelle all'anice che immancabilmente succhiava. Detestava il suo fiato profumato con la forza. E detestava le telefonate del suo dentista con il meccanico: brevi intermezzi durante i quali ripeteva mille volte il nome Porsche, mille volte il numero 911, mille volte la parola otto cilindri, e mille volte “cabrio”. Arabo per Delia. Lasciasse perdere, effetto su di lei zero. Idem per l'orologio. Per i moccassini. Per la t-shirt. Per i capelli (doveva-esserseli-incollati-al-cranio).
Delia stava ormai salendo i gradini di casa. Si era fatta la strada a cento all'ora. Tutta a piedi. Aveva camminato sul corpo del suo dentista. Aveva infierito. Un tacco dopo l'altro. E aveva sperato di fargli moooolto male. Ora, mentre girava la chiave nella serratura, si chiedeva perché continuava ad andarci, se lo detestava tanto. Se lo era chiesto piu' volte, in passato. Ci andava perché tutte le sue amiche lo adoravano e tutte dicevano che faceva miracoli. L'unico miracolo di cui lei avrebbe ammesso l'esistenza era la moltiplicazione vertiginosa dei quattrini: che il dentista guadagnava a palate. Domani l'avrebbe steso. Gli avrebbe preso il dente che avrebbe senza dubbio ceduto sotto l'impeto del suo dritto sinistro. E se ne sarebbe andata. Un trofeo meritato. Da mostrare ad A. Perché A. era il dentista da cui avrebbe sempre voluto andare. E questa volta avrebbe preso il coraggio a due mani e lo avrebbe chiamato. Non lo aveva mai fatto, a causa di quella volta. Si erano incontrati, una decina di anni prima, in una discoteca. Si erano parlati fino alle quattro di mattina. Erano rimasti senza fiato. Entrambi. Si erano raccontati. E A. le aveva spiegato che faceva il dentista. Non si erano mai piu' rivisti. Delia era rimasta affascinata da quell'uomo. E paralizzata. C'era un fondo denso di inquietudine che l'aveva convinta a tenersi alla larga. Un'inquietudine che lo sguardo di A. aveva risvegliato in lei.
Delia era ormai sotto la doccia. I pensieri erano finiti nello scarico, insieme alla schiuma dello shampoo.
A qualche isolato di distanza, nelle orecchie di L. risuonava ancora il lamento del telefono che segnalava l'interruzione della linea. Era indeciso se ignorare le parole concitate di A. dall'altro capo del filo e rimettere il disco di Miles Davis oppure prendersi una birra ghiacciata dal frigorifero. Non aveva fatto in tempo a decidere, perché qualcuno alla porta stava bussando. Nessuno bussava a casa di L. a quell'ora. Mai.

lunedì 2 aprile 2012

Apologia dell'inquietudine/3


Ecco la terza puntata del racconto che fra i lettori del blog sembra stia riscontrando un grande successo. Complimenti al lettore che me lo ha inviato.


- Pronto?
- ....
- Hallooooo?
- Mmm....humhhumhum....
- Tre, due, uno e appendo!
- No, aspetta! Ciao, sono io...
- Tu? Uuuuuuu? Da dove sbuchi, da un tombino?
- Ascolta, L(biiiip), sono stato in giro, per lavoro. E ti sono stato alla larga. Per quello che sai.

Miles Davis, in sottofondo, nell'appartamento di L., ormai un acquario dei sensi, dava sfogo a una poesia di note che graffiava i polmoni e faceva dire al cuore che andava bene cosi', tutto quello che nella vita ti era fottutamente capitato, andava bene, persino quello che era andato storto. Tutto. Bene. Grrrrrr. Grazie. Grazie, vita. Il dolore. Il piacere. I rimpianti. I conti che non tornano. Che non sarebbero comunque tornati. Mai. Possibile che questo trasparente equilibrio imbevuto di fatalismo e JackDaniels dovesse sfumare, proprio adesso? Ooooo?

- Come va? Come va v-e-c-c-h-i-o f-e-s-s-o?
- Io... Io sto da bestia. Io...
- Si', io, io,io.... Lo conosci un altro pronome? L'hai mai conosciuto?
- Sono entrati!

Miles aveva perso il fiato. Improvvisamente aveva donato i polmoni, a chissà chi. A chi? Silenzio. No: oltre il silenzio. Era, invece, un rumore di sottofondo pazzesco che il silenzio te lo faceva rimpiangere. Un silenzio bianchegrigio. I quadri, nell'appartamento di L., avevano perso i colori, le pareti avevano perso profilo. L. aveva perso la certezza che gli fosse andata bene, quella sera. Ora ne era certo: ricominciava tutto, da capo. M-a-k-r-i-s-t-o-s-a-n-t-o, è mai possibile? Lui che aveva trascorso la vita a guardare in faccia le cose, lui che aveva sempre detto la verità, in faccia a tutti, persinoaifessi, persinoaifessiglielavevadettalaveritàchesonofessiepunto. E allora ti prego Dio dei solitari vieni in soccorso di questo piccolo birillo che se ne sta solo di fronte a una saettata di vento che spazza via persino i piloni dei cavalcavia. Miles Davis si era definitivamente congedato. Aveva fiutato puzza di guai, spessa quanto la pelle di un ippopotamo. In fondo all'abisso dondolava un cappio bianco scintillante. Miles: la tua musica. La tromba era ancora li', nell'angolo fra la libreria verticale rotante e f-i-r-m-a-t-a e il tavolino con le riviste di fotografia. Fotografia, NON sport! Smorta come una morta. Smorta come il portafortuna di uno sfigato. Buona a nulla. Ormai. Un organo che ti strappi per quanto vitale e poi te lo stai a guardare mentre ti rimprovera: avresti potuto non farlo! Ma se l'hai fatto, se l'hai fatto....

- Sono entrati!
- Quando?
- Tut...tut...tut....

Il telefono aveva tirato le cuoia. La batteria aveva fatto testamento da anni. Il campo se l'era data a gambe. Solo era rimasto. E solo avrebbe dovuto affrontare l'abisso spalancato davanti alla sua esistenza (ai suoi piedi) da quel buono a nulla di un suo amico di vecchia data. Vecchia ma non cancellabile. Purtroppo. (3/continua)