Raccontare


SPAZIO ALLE STORIE CHE NON SONO STATE RACCONTATE ALTROVE. ALLE PERSONE INCONTRATE E RIMASTE SUL TACCUINO. OPPURE A QUEI PENSIERI CHE MI PASSANO PER LA TESTA VELOCI COME UNA PALLOTTOLA: SE NON LI FERMASSI, LI PERDEREI.

sabato 29 aprile 2017

L'attesa.

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L'attesa è un conto alla rovescia. Non vedi l'ora che il tempo passi. Ti prende in parola. Fermarlo, dopo...

venerdì 28 aprile 2017

Il senso del taccuino.

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Domani nel Senso del taccuino sulla Regione: "Una storia d'amore (e altro)".

Un estratto a caso, da Beirut dove sono finito partendo dalla storia d'amore fra Macron e Brigitte, passando per quella fra il mio amico Hosni e sua moglie (anagraficamente uguale alla prima) per giungere, battendo la testa uguale a infinite altre volte, alla storia che conclude lo scritto di domani e giustifica, come capirete, la fotografia:

Ricordare una storia d'amore che continua, dentro questa città che ribolle, fra le bestemmie e i festini, gli scantinati putridi e i traffici inarrestabili, fra le esistenze invisibili e la superficialità ostentata, fra la bellezza e la violenza, fra qualche preghiera e chissà cosa. Raccontare la storia d'amore di Hosni e sua moglie non sposta la bilancia di un millimetro. La racconti perché è la vita. È messa così. 



martedì 25 aprile 2017

Nemmeno l'Aqua Velva.

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Cleofe, sei fatta di gomma. Rimbalzano su di te le buone intenzioni. E anche quelle che lo sono meno. I sogni, perdio, rimbalzano. I mezzi sogni pure. Non attacca nemmeno l'Aqua Velva, su di te. Sei insensibile, fatta di ghiaccio. Abbondante come una promessa. Tagliente come la delusione. Cosa sarà mai un bacio in preselezione stradale? Mi hai fatto scendere dalla macchina sulla curva, che poteva anche essere pericoloso. Donnone, Cleofe! Ecco quello che sei. Non c'è come stare, solo e di notte, davanti a un distributore automatico di bibite e dolciumi per sentire la vita. L'Aqua Velva, sollevata da un filo di vento. Inutile, anche lei, nel tentativo di domarti. Trovane un altro come me, Cleofe! E se lo trovi, fammi sapere.

Da un monologo stradale notturno, leggermente adattato, ma davvero soltanto leggermente. In relazione a un uomo e a una donna sui quasi 70 anni che avevano trascorso insieme 2 ore buone al bar e davano l'impressione di conoscersi. In fondo anche di intendersi. Giurato che è vero. Meraviglia di una vita. 

sabato 22 aprile 2017

Amuleti di viaggio.

Al fronte amuleti di viaggio tengono vivi. Ooooh, vivi. L'immagine di una vecchia signora, meno vecchia di quello che crede, posta con cura nella tasca destra dei pantaloni cargo, traduce nel momento stesso della massima esposizione di sé all'azzeramento che esercita la violenza la convinzione di non essere mai soli. Suggerisce, anzi, questa immagine, la consapevolezza dell'inseparabilità. Di una addirittura consapevole inseparabilità. Se mi chiedi da chi o da che cosa, rispondo: da quelli che siamo.

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lunedì 17 aprile 2017

sabato 15 aprile 2017

Quei morti che non resusciteranno.

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Ci sono morti che non resusciteranno. E ci sono vivi che sono morti, anche se ti guardano. Nemmeno loro resusciteranno. 

SpazioReale è aperta l'esposizione Resistenze, dedicata alla popolazione civile di Mosul, in Iraq. È un pezzo di pelle strappata a me e consegnata alla carta per stamparci sopra le storie di questi esseri umani. 

Basta una prospettiva, a due passi dal manifesto esposto in città, per spalancare il vuoto, per innescarlo. Basta lo sguardo che trova poca aria mentre è fisso su uno che cammina per richiamarlo. 

Questo-tutto-sommato-nulla basta affinché si faccia avanti la domanda: "A che cosa serve il mio lavoro?". 

Domanda che viene fuori sempre, quando guardi i morti di guerra che non conosceranno risurrezione, perché sono morti e basta e non risultano a nessuno. Domanda di fronte ai sopravvissuti. Non risultano nemmeno loro. Anche di fronte a un manifesto, sissignori. Uguale a uno specchio che ti costringe a guardarci dentro. 

"A che cosa servo?". La risposta trasforma il testimone in uno di loro: in un sopravvissuto, oppure in un morto. Nient'altro. È questa, credo, la sola garanzia che accompagna il mio lavoro. 

venerdì 14 aprile 2017

Il senso del taccuino.

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Domani nel Senso del taccuino sulla Regione: "Dentro le crepe della realtà". Sarà l'occasione per tornare sull'amaca per gatti da vetro e andare oltre, in un racconto notturno che conduce anche in guerra. Qui di seguito il consueto estratto:

Le città, anche quelle più piccole, vivono di notte. Anzi: proprio quelle più piccole prendono vita di notte. Si trasformano in un irresistibile palcoscenico sul quale la realtà si diverte a mostrarsi (tanto, chi la vede?) come di giorno raramente si mostra: una tela piena di squarci oltre ai quali guardare. Su un'immaginaria didascalia andrebbe tuttavia scritto: guardare a proprio rischio e pericolo. Ah sì? Pericolo di che cosa? Di finirci dentro, ad esempio. Dentro gli squarci, ai tagli. Di finire dentro l'avventura che promettono e di non avere più desiderio di uscirne. 

martedì 11 aprile 2017

Scatti trascurabili.

Fra due minuti la notte. Gli scatti (trascurabili) di uno che non sa che cos'è un' "amaca per gatti da vetro". Diversa la storia per le "cartucce". Collegano la pace alla guerra. "Scontate" lo sono tutte. Nel senso dello sconto e nel senso della loro normalità. Quelle che stampano fogli (magari: racconti) e quelle che ammazzano. E quante altre immagini. Senza fine. In giro, da un posto all'altro, in cerca di sonno. Sempre più vuote le strade. Sempre troppo presto per inciampare nel sonno. Il resto è un racconto che porterai avanti. Tu.

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giovedì 6 aprile 2017

Io, che sono morto a Mosul.

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Io, che sono morto a Mosul, sotto una bella bomba convenzionale, una di quelle che piacciono un po' a tutti, perché sa di guerra pulita e portata avanti come si deve, senza strappare dal sonno nessuno. Io che sono morto a Mosul sotto una bomba di 500 chili sganciata da un aereo. Io che sono morto a Mosul dopo che mia sorella era morta, prima di me, colpita sulla porta di casa da un mortaio. Io che che sono morto a Mosul dico a voi, che vi state agitando per l'attacco con il gas a Khan Sheikoun, vicino a Idlib, che non avete capito o non avete voluto capire o non potete capire che cos'è la guerra. Non ci siete stati. Io che sono morto a Mosul mi chiedo perché, quando me ne sono andato, i giornalisti non hanno fatto domande. Dove erano? Dove eravate? Dove erano le Nazioni Unite? Dove? Dove erano i loro servitori? E le loro servitrici?

Io, che sono morto a Mosul, pochi giorni fa, mi chiedo perché continuate a cadere nella trappola della guerra: pensate che ce ne sia una che si può fare con le armi convenzionali, quelle che fanno boom e basta, e una che non si può fare, con le armi che fanno boom e sprigionano gas. Ammazzano tutte, queste bombe, in fretta oppure lentamente. 

Voi soltanto avete deciso che le prime siano accettabili e le seconde non lo siano, che le prime vi permettano di andare a cena ignorando tutto e le seconde provochino (in voi, ancora) un leggero (e passeggero) senso della barricata.  

Io, che sono morto a Mosul, chiedo a chi in queste ore sta strappando i microfoni ai giornalisti per dire che la guerra in Siria (e perché non in Iraq?) deve finire, chiedo il silenzio della pietà e dell'onestà. Dove eravate quando cadevano (ed era ieri, ed è ora) le bombe convenzionali sulla mia città? Quelle bombe che rendono una guerra giuridicamente ineccepibile, che hanno l'effetto di un sonnifero, addirittura, il quale chiama il sonno. Il vostro sonno. 

Perché chiedere che una guerra debba finire soltanto quando si sprigiona un gas, e non prima? Il gas offre il palcoscenico sul quale celebrare la propria inutilità, scambiata per protagonismo umanitario. 

Io, che sono morto a Mosul, non sotto il gas ma sotto una bomba convenzionale di 500 chili, chiedo che stiano tutti zitti. Oppure che abbiano il coraggio di venire qui, quelli e quelle che parlano e parlano e parlano, che vengano a vedere come siamo messi e la smettano di dire che non possono. Per fermare una guerra non servono le parole. Serve il coraggio. 

 (La fotografia in testa al post si riferisce in senso metaforico al testo che hai appena letto, ha tuttavia per protagonista un piccolo abitante di Mosul).