Raccontare


SPAZIO ALLE STORIE CHE NON SONO STATE RACCONTATE ALTROVE. ALLE PERSONE INCONTRATE E RIMASTE SUL TACCUINO. OPPURE A QUEI PENSIERI CHE MI PASSANO PER LA TESTA VELOCI COME UNA PALLOTTOLA: SE NON LI FERMASSI, LI PERDEREI.

venerdì 20 febbraio 2015

Il senso del taccuino.

© 2015 weast productions
Domani nel Senso del taccuino sulla Regione: "In fila per un racconto". Qui di seguito il (solito, oh parentesi, un giorno vi avrò!) estratto:

Primo piano: la vita. Bastasse quella. Per venirne fuori felici e contenti. Piano largo: due tizi con la faccia da assassini attraversano la strada nemmeno sulle strisce pedonali e nemmeno con il verde. Cioè: così come viene. E poi: se c'è da ammazzare, ammazziamo. Una macchina gialla con scritto sulle fiancate “Posta” avanza lentamente. Primo piano: dentro l'automobile, una testa inquieta esercita sul collo che la regge la stessa azione che un pallone aerostatico esercita sulla zavorra che lo tiene a terra. Un'azione di stiramento, o di allungamento. Di esausta tensione. Se i due tizi avessero tempo, si godrebbero la scena fino in fondo: probabilmente fino al punto in cui la testa si stacca e come per un terrificante miracolo (in realtà è una finzione) si mette a galleggiare a mezz'aria, con gli occhi che fanno su e giù. Soltanto che i due tizi non hanno né tempo né occhi per la testa del postino. E il postino non ha né tempo né occhi per i due tizi. I casini iniziano sempre così: per mancanza di tempo. Piano medio: una donna con addosso si direbbe cent'anni mette un piede e poi – pausa – mette l'altro e fra un piede messo e l'altro piede messo (tiriamola per le lunghe) c'è un tac che viene fuori da sotto il pastrano, una finta d'alluminio che spezza il prevedibile ritmo di quella che, comunemente ragionando e parlando, definiremmo una vitaccia. Il rumore metallico di una stampella. 

giovedì 19 febbraio 2015

Due punti esclamativi sbattuti in faccia alla vita.

© 2015 weast poiductions

A, come si dice in questi casi?, grande richiesta, un nuovo episodio dal supermercato dietro l'angolo. Un pezzo di vita raccolto (con i guanti, la vita taglia...) al mio rientro. Rientro? Rientro, sì. Okay, ma da dove? Vallo a sapere. Da lontano, dai margini, andrebbe, come risposta? Va okay, capo. Tranquillo. Il resoconto, ora.

Cosaaaa? Nel computer? Nel cosa cazzo dici? Nel miiiio computer? A parte che la password chi te l'ha data, cosa ci fai te dentro il mio laptop? Chi è Marco nei contatti di Skype? Aspetta che respiro.
Respira. Uno, due, tre. È bellissima. Uno e settanta, capelli scuuuri, pelle pallida, aria sana, beata lei sana, strasana si direbbe, che cosa hai fatto per meritartela, quest'aria?, e ancora: l'aria di una pronta a tutto. In primis, pronta a ricominciare. Prova a chiederle – se hai il coraggio di farlo – il senso di due tacchi così alla Cooooooop. Due punti esclamativi sbattuti in faccia alla vita. Ora cammina, accelerando senza neppure gettare un'occhiata alla pasta, al sugo, alle acciughe, al sushi scontato, cristo santo, al sushi scontato, quello, almeno... Niente.
Prontooo? Ci sei ancora, vigliacco che non sei altro, ignorante, parla se hai il coraggio, il mio laptop per te è la Casa Bianca, hai capito, se entri muori, arriva il messaggio?
Diiio se arriva; è una vibrazione, un pugno in faccia, un ginocchio sulla schiena che spinge a fondo e due mani che ti mettono le manette, di un devastante cattivo che lascia il segno, una testata dura e cruda in mezzo alle scapole e un colpo di tacchi proprio sulla nuca, aaaaahhhh, che male che fa e cooome ci fai sognare a noi che ti stiamo guardando (immaginando), ooooo, con riservata, aaaaaa, discrezione, eeeeee, che risuona uguale a una promessa (dimentica l'eco, questa volta non c'è), mentre la tua – la tua! - mano apre il frigo dei surgelati, i quali fanno iiii (questa volta l'eco c'è), e purtroppo è già (quasi) finito tutto. Punto. O. O. O. O. Diiio, se esisti, fai che esista anche lei, per davvero. Questa sterminatrice. Vendicatrice. Accarezzatrice. Che ora, con una mano divinamente leggera (eeeraaa), afferra dallo scaffale un pacchetto di Marlboro, oooddddiiiio Marlboro, proprio Loro, e lo getta distratta (sai quanto vale un pacchetto di Marlboro, Miiiss, lo saai?) nel cestello maledettamente felice di accogliere qualsiasi cosa giunga da lei, e se sono Marlboro ê festa....
Senti, ragazzo, ascoltami bene: fai le valige e sgomma, vattene da casa mia. Criceto. Marmotta. Coniglio, ecco: coniglio. Cosa cercavi? Il video? Il video quale? Aahahahaha.... Quello? Ma quello era il trailer, sfigatus. Cinquanta sfumature di fregnacce, le tue, tutte tue. Marco? Chi è, chi sarebbe? Vuoi saperlo? Sei te, bestia. Te come mi piacerebbe che tu fossi. Punto esclamativo. Dai che sono alla cassa. Salgo in macchina e rientro. Aspettami. Che nero ti faccio. N-e-r-o. 
A dire poco mervaigliosa: anche quando infila il cellulare nella borsa. Un corpo ormai senza vita. Troppo lenta la cassiera (o la cassa medesima) per dare un seguito narrativo a tale strepitosa furia.  

lunedì 9 febbraio 2015

Una trasparente perfezione.

© 2015 Weast Productions
Sola. Che comunque si fa per dire. Sei sola, quando fumi una sigaretta? O quando, dentro la città, avanzi sicura e senza passato? Una trasparente perfezione recuperata (sottratta: andrebbe uguale?) all'equilibrio che tiene sui piatti della vita la salute e il lavoro. Portate uniche che ti apparecchi una volta soltanto (che sia, “soltanto”, imparentato con “sola”?) nella vita. Perché serve il tabacco, quando vuoi capire? Tabacco, signori! Capire quello che ti passa nelle orecchie, ad esempio, ora, quel si bemolle minore che davanti ha il umero uno e più avanti ancora il nome di Tschaikowsky, e davanti davanti, il nome del cameriere che ha la sua età e che nel posare come fosse (è, forse?) una dichiarazione non d'amore (troppo vecchio), ma, vedi, quasi, e verrebbe sul serio da dire, un consiglio da rudere, fa la sua faccia e dice: ascolta. Ascolta la vita.

Che strano, quando uno si sente in grado di dare consigli. Lo mettono sempre nelle sale posteriori, quelle meno in vista, recondite si direbbe. Il cameriere ha un accento strano, duro e rotondo, verrebbe da dire romantico. E nottambulo. Russo? Dopo le lumache (dopo) e prima del pesce al vapore (prima) viene fuori il nome di Svjatoslav Richter. Fermati vita, ora. E ascolta: quasi fosse la memoria un argine, una chiusa, capace tuttavia, nella prigione in cui si trova costretta, di portarti un nome. Un altro. Tschaikowsky, proprio lui. Girano, incollate dentro le 33 rotazioni al minuto, le terrificanti intuizioni incapaci soltanto di evitare i granelli della polvere. Le quali anzi producono il senso del rogo, di un fuoco che si consuma, dello scoppiettio dei legni. Del legno esiguo, diretto, e sembra pazzia, dall'invisibile bastoncino di Herbert.

Se soltanto. Se soltanto intuissimo le radici. Il senso della combinazione. L'esorbitante estasi di questo concerto per pianoforte, che ha per radice l'Ucraina.

Alla quale, oggi, qualcuno vuole mandare armi. Sul disco, che in questi minuti sta girando, stremato nello sforzo di dire qualcosa, c'è scritto: “Deutsche Grammophon”. La casa editrice. Se posso, per quello zero che capisco, direi ai tedeschi di fermarsi. Di ammettere gli sbagli compiuti da un anno a questa parte, in piena (eppure cieca) consapevolezza.

E tu, che sei sola e avanzi dentro la città. Tu che ascolti questo tragico e meraviglioso racconto in musica, che fai? Ti fermi? O te ne vai, come sembri volere fare, quasi avessi già trovato l'onda maestra delle conclusioni? Inevitabili e stonate, non ascoltabili. Fasulle. Portatrici di una chiusa che non ha nulla a che fare, e pure come anticipata nel gioco di prestigio che porta il disco da un lato all'altro, dal lato A al lato B. Stessa distesa di polvere, a produrre si direbbero spari. Nemmeno fosse la vita: girabile e rigirabile, al suono delle bombe. Quelle, credimi, che stanno cadendo. Da una parte e dall'altra. Sulla copertina del disco, dopo “Deutsche Grammophon”, c'è scritto “Gesellschaft”: società. Che si possa fare qualcosa anche noi, per fermarla, questa guerra? Raccontarla, forse, come stiamo facendo?

E tu? E tu? Sola, come sei, in mezzo alla città che si avvita attorno ai suoi corsi cristallini, ti andrebbe di provarci? Ci stai provando? Ti ascolto. Dimmi quello che, dentro, senti.



venerdì 6 febbraio 2015

Il senso del taccuino.

Domani nel Senso del taccuino sulla Regione: "Liberi di fare la guerra". Qui di seguito il (solito, ah le parentesi...):

Dice: “La guerra ha una puzza che senti da lontano”. Apparentemente, questa puzza ci piace; oppure, abbiamo un naso rozzo. Dice: “ci piace”. Ci piace l’odore del sangue, che per definirlo devi mettere insieme ferro e zucchero e vapore di carne bollita a lungo. L’odore della polvere da sparo, “mille volte meglio che sniffare”: il soldato che lo spiega ha la faccia grigia di sonno, ma non di paura. L’odore della nafta che fa girare i motori dei carri armati e quello del grasso che fa scivolare le culatte dei cannoni come i tendini di un atleta dentro le guaine. Ci piace l’odore che hanno gli esseri umani quando hanno paura: che non è più un odore, è una lingua nuova. Puoi lavarti fin che vuoi, non va via subito. L’odore della paura è la manifestazione perfetta della verità. Oltre, non c’è più nulla, se non lo sforzo che chiediamo al nostro corpo e alla nostra testa di compiere: vincerla. Per metterci in salvo oppure per continuare ad ammazzare.