Raccontare


SPAZIO ALLE STORIE CHE NON SONO STATE RACCONTATE ALTROVE. ALLE PERSONE INCONTRATE E RIMASTE SUL TACCUINO. OPPURE A QUEI PENSIERI CHE MI PASSANO PER LA TESTA VELOCI COME UNA PALLOTTOLA: SE NON LI FERMASSI, LI PERDEREI.

venerdì 21 agosto 2015

Oggetti per la (nostra) vita.

Quegli oggetti che si lasciano alle spalle.

(c) 2015 weast productions
I giubbotti galleggianti, un bracciolo: messi ai bambini che attraversano il mare dalla Turchia alla Grecia. Me ne sono portati a casa alcuni.

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Mi sono portato a casa anche il filtro dell'obiettivo a pezzi, dopo essere salito su un treno in Macedonia, con la gente che spingeva e schiacciava e si schiacciava e lottava e urlava e piangeva per fare i tre scalini che portavano dentro la carrozza.

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Diamo per scontata l'esistenza di una "crisi dei migranti" di cui parlano politica e mass media. "Crisi" è una parola. "Migranti" è una parola. C'è, in realtà, una crisi del linguaggio. Come raccontare le decine e decine di migliaia di persone in cammino? Le situazione dentro le quali sono costrette a vivere? La realtà dalla quale fuggono?

Senza predica: l'Europa ha chiuso le ambasciate nei Paesi dove queste persone avrebbero potuto chiedere ufficialmente asilo, protezione dalla guerra (i siriani, gli iracheni, gli afgani). Quando arrivano, in Europa, vengono accolti, alla maggior parte di loro viene concesso asilo. Se lo devono, però, guadagnare. Diciamo: sudare. La "crisi" alla quale assistiamo (in Grecia, in Macedonia, negli snodi più drammatici. La Macedonia ha chiuso ieri le frontiere agli esseri umani in cammino) è stata generata dalla decisione di disattivare il meccanismo di richiesta d'asilo al di fuori dell'Europa. Se i conti tornano, sembra una "crisi pensata", un "crisi preparata". Per generare che cosa? Il disordine, forse. La diffidenza, forse. L'indifferenza, forse. La circolazione e l'accettazione crescente di parole e pensieri fino a ieri non accettabili e non proponibili, forse. La messa fuori gioco di chi la pensa in modo diverso, forse. La convinzione che chi sta bene starà bene per sempre e chi sta peggio si arrangi, forse. E, soprattutto, l'idea che a noi non succederà mai di trovarci in queste condizioni, forse.

È in "crisi" anche il linguaggio dei mass media (lascia stare della politica, in chiave internazionale): non racconta, ripete. Serve un linguaggio che sappia recuperare il senso della realtà, individuare le cuciture, gli elementi che si tengono. Serve un linguaggio per raccontare queste migliaia di persone in cammino. La loro vita. Per fare in modo che ce la portiamo a casa, come un oggetto trovato durante un viaggio, su una spiaggia, o un filtro fotografico a pezzi. Non è soltanto un ricordo: per infinite ragioni non possiamo separarcene, significa qualcosa per noi. Anche, vedi un po' che strano è il mondo, per la nostra vita.

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sabato 15 agosto 2015

Fatma, la bambina irachena. E l'interprete.

Di Fatma, che è nel titolo, parlerò più avanti.

Faccia da reporter è tornato sul cammino degli esseri umani che fuggono dai loro paesi che sono in guerra o nella miseria. Questo lungo viaggio diventerà, ora posso dirlo ufficialmente, un libro. Per raccontare queste vite. Qui di seguito, alcuni scatti, appena realizzati, di documentazione dalla stazione ferroviaria di Gevgelija, in Macedonia, a un chilometro dal confine con la Grecia. Migliaia di persone, ogni giorno, attendono di potere salire sui treni (due, al massimo tre collegamenti, a volte soltanto due vagoni per mille persone, come ci entrano?) che li portano a Tabanovze, da dove a piedi continueranno il cammino verso la Serbia. Aggiungo, dove necessario,
qualche indispensabile commento, altrimenti nulla.

Non c'è nessuna organizzazione internazionale sul posto che seriamente abbia preparato un dispositivo per aiutare queste persone. Chi sostiene il contrario racconta balle. Aiutarle come? Dandogli acqua, qualcosa da mangiare e soprattutto occupandosi delle persone malate, dei disabili, degli andicappati, che sono fra gli esseri umani in fuga dai loro paesi. È ridicola la presenza dell'ONU (UNHCR), ridicola la presenza del Comitato Internazionale della Croce Rossa, ridicola la presenza delle Organizzazioni non governative. Tutte quante, queste organizzazioni, non risparmiano fiumi di inchiostro per i loro comunicati stampa. Sul terreno, sono ridicolmente invisibili. Quando li incontri, i collaboratori in divisa (maglietta con logo o cappellino, tesserino plastificato di identificazione, palle e palle e palle, ecc.) di queste organizzazioni guardano i giornalisti con la solita aria di superiorità e, diciamolo pure, disprezzo. Fanno ridere. E sono colpevoli  di un'assenza spacciata invece per impegno e intervento. Anche quando c'è, questo intervento è soltanto insufficiente e spocchioso, anzi complice dell'abbandono al quale sono lasciati questi esseri umani, accompagnato dall'atteggiamento di vuota superbia di chi vuole promuovere soltanto un logo. Un logo. Un logo. Un logo.

A Tabanovze, il CICR ha preparato un campo di "accoglienza" per gli esseri umani che arrivano in treno: quando, un giorno fa, li ho visti scendere, chiedevano acqua al CICR. Il CICR, però, di acqua, di bottiglie d'acqua, non ne aveva. "La trovate più avanti", dicevano i collaboratori in tuta rossa con la croce agli esseri umani, avvolti nella calura e nell'odore dei propri corpi non lavati da giorni. Più avanti l'acqua c'era: in bottigliette vendute da alcuni abitanti di Tabanovze: 1 euro la bottiglietta piccola. Benvenuti. Più avanti ancora, in mezzo ai campi e sotto il sole che bruciava, quattro o cinque ragazzi con le magliette e i tesserini di identificazione dell'UNHCR (Alto - ma alto in che senso, per cosa? - Commissariato delle Nazioni Unite per i Rifugiati) camminavano isolati dal resto del mondo. Mi fermo e gli dico: dovreste aiutare queste persone, è una vergogna che non lo stiate facendo. E ho aggiunto: denuncerò questa situazione. Lo faccio qui e lo farò altrove.

Questi esseri umani sono lasciati soli a se stessi. Per una decisione politica che scende dall'alto al basso. E per il disinteresse totale.

Alle organizzazioni non governative, le cosiddette organizzazioni umanitarie, interessa soltanto qualche fotografia scattata bene con, sullo sfondo, centinaia di esseri umani in terrificante difficoltà. Che non ricevono aiuto: servono, soltanto, all'autopromozione delle ONG e di quelle governative pure, ecc. Servono a mobilitare i cosiddetti "donors", gli sponsor, quelli che sganciano, a smuovere fondi, soldi. Dove finiscono, questi soldi?

Denuncio tutto questo perché l'ho visto. E lo ridenuncio. È vergognoso. E inaccettabile.

Ora le foto dalla stazione macedone di Gevgelija. Anche le autorità macedoni sono lasciate sole ad affrontare la crisi.

(c) 2015 weast productions

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Questa bambina (a paratire dalla foto sotto) ha sette anni e si chiama Fatma Mohammed Bakir. È irachena, di Bagdad. Suo padre è morto 5 anni fa. Fatma è nata con una grave menomazione cerebrale che, stando a quanto mi ha spiegato la madre, è stata causata sin dalla nascita, da prima, dalle sostanze contenute nelle bombe sganciate dagli americani (o alleati) su Bagdad. Indipendentemente dall'origine della sua malattia, questa bambina è malata. Un parente mi ha preso per mano, mentre fotografavo, e mi ha detto: "vieni a vedere". Poi: "aiutaci". Aiutaci a farci salire su un treno senza che la massa di persone ci schiacci, ci spinga indietro. Succede questo quando arriva un treno: il finimondo. Un assalto fuori controllo. Quando arriva un treno non esistono più bambini, donne, malati, anziani. È una corsa a chi ce la fa.

Sono riuscito ad aiutare questa famiglia, a far salire in modo umano sul treno Fatma. Grazie a un ragazzo di cui voglio fare il nome: Mudjteba Djebr. Lavora come interpetre per l'UNHCR. Siamo andati a chiamarlo, chiedendogli di darci una mano per aiutare questa famiglia. Dapprima ha esitato. Poi, credo si sia guardato dentro. Quando il treno, di notte, si è avvicinato alla stazione, si è messo davanti a una delle porte e, urlando contro chi - uomini - la prendeva d'assalto, è riuscito a creare un corridoio per Fatma e la madre. Poi, l'assalto è stato incontenibile. Per fare salire anche il resto della famiglia (nessuno vuole dividersi) è stata una lotta. Davvero.

Fatma, ieri, era a Belgrado. Ce l'hanno fatta, almeno fino a lì.

Il ragazzo dell'UNHCR, Mudjteba: alla fine sono andato da lui e gli ho detto: "sei una grande persona". Lui: "l'ho fatto perché ho un cuore, faccio quello che sento dentro". A scriverlo, sembra una cazzata, ma credetemi, in momenti come questi è quello che conta. Un interprete delle Nazioni Unite è la sola persona che ha aiutato Fatma, la bambina con una grave malformazione cerebrale (a causa delle bombe alleate sulla sua città). Grazie.

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 Ultimi tentativi di salire sul treno in partenza.


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martedì 4 agosto 2015

Famiglia siriana okay. E: una domanda soltanto.

La famiglia di siriani cristiani che avevo incontrato nel momento dello sbarco sull'isola di Lesbo e che ho seguito per giorni è arrivata a destinazione in Europa: chi in Germania, chi in Olanda, chi in Svezia. In Svezia la madre con la piccola Rita e un cugino. Seguirà il seguito del viaggio e del racconto. Le immagini dei giorni trascorsi finiranno, se troveranno un porto di arrivo anch'esse (dovrebbero...), in un volume stampato.

In questo scatto, un gruppo di migranti afgani riposano davanti a una stazione di polizia sull'isola di Lesbo, presso la quale speravano di ottenere la registrazione ufficiale di "profughi" (grazie alla quale possono eventualmente affittare una camera - non gli afgani, che sono poveri -  e, soprattutto, acquistare i biglietti per il traghetto verso Atene e da lì i biglietti del treno verso il confine con la Macedonia). Altri chilometri li separano invece dalla città di Mitilene, dove avverrà la registrazione ufficiale. Nessuno li informa. Nessuno li assiste. Nessuno. Faccia da reporter non fa alcuna predica. Formula una domanda soltanto: e se un giorno toccasse a noi?

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sabato 1 agosto 2015

Arrivi.

La stazione centrale di Vienna: per molti migranti, che hanno preso il treno a Budapest, in Ungheria, è il luogo dal quale partire per raggiungere le destinazioni finali, in Germania, Olanda, Svezia, ecc.

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Altri migranti (chi non ha i soldi per continuare il viaggio, chi vuole restare in Austria, chi viene fermato dalle forze dell'ordine) finiscono nel centro di prima accoglienza di Traiskirchen, a circa 30 chilometri a sud di Vienna. La struttura ospita 4,500 esseri umani. Ci sono letti per 2,300. 480 (secondo le stime ufficiali, molti di più secondo me, perché altrimenti dove sono tutti gli altri esseri umani?) vivono in tende all'aperto, nel parco circostante il centro. La popolazione della cittadina è poco favorevole alla presenza di queste persone, per usare una formula neutra.

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500 migranti attualmente registrati nel Centro di prima accoglienza di Traiskirchen dovrebbero essere trasferiti a Gabcikovo, nella Slovacchia meridionale, in seguito a un accordo fra Vienna e Bratislava. Gli abitanti della cittadina slovacca (5,000 anime) voteranno domani, domenica 2 agosto, per decidere se accettare o meno (i segnali sono sul "meno") queste persone. Due scatti, a seguire, da Traiskirchen.

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