Raccontare


SPAZIO ALLE STORIE CHE NON SONO STATE RACCONTATE ALTROVE. ALLE PERSONE INCONTRATE E RIMASTE SUL TACCUINO. OPPURE A QUEI PENSIERI CHE MI PASSANO PER LA TESTA VELOCI COME UNA PALLOTTOLA: SE NON LI FERMASSI, LI PERDEREI.

giovedì 29 settembre 2011

Siria: primavera, estate, autunno della rivoluzione




BBC Panorama ha diffuso un reportage che mostra le immagini girate in Siria dai giovani. E' visibile QUI. Non aggiunge molto alla quantità di filmati disponibili online e la faccia della giornalista, peraltro una forte, la trovo assolutamente estemporanea in questo contesto. Tuttavia il reportage offre una contestualizzazione importante e merita di essere guardato. Il reportage riprende addirittura immagini che avevo avuto modo di mostrare in passato, messemi a disposizione da un attivista siriano. Tempo fa, in Egitto avevo parlato con uno studente che aveva, anche lui, filmato numerose manifestazioni e la repressione della polizia e dell'esercito (clikka QUI per vederlo). Il filmato aveva suscitato le ire e le proteste di alcuni ambienti siriani a Ginevra, così mi fu detto dal Telegiornale della TSR che lo mise in onda, insieme al Telegiornale di RSI, primo a farlo: non ho mai saputo se si trattasse di associazioni di privati cittadini o di ambienti diplomatici. Successivamente, alla frontiera fra Libano e Siria avevo raccolto numerose testimonianze, parlando con i profughi siriani in fuga (clikka QUI per vedere il filmato). E' passato del tempo e queste immagini restano le sole fonti di informazione su quanto sta succedendo in Siria. Oggi nessuno sembra piu' metterne in discussione la veridicità e il coraggio degli autori. Le loro immagini sono fasci di luce da un paese precipitato nelle tenebre della soppressione. Sono personalmente convinto che l'informazione, i Telegiornali, gli approfondimenti dovrebbero ogni giorno parlarne. Se non lo fa la stampa questo vuoto viene riempito dalle trame ordite dai poteri, dai governi: disinteressati agli individui (anche quando dichiarano il contrario), interessati soltanto alla geopolitica.

"La guerra" al Palacongressi di Lugano

(c) 2011 weast productions

"La guerra", mio cortometraggio (30 min.) , sarà proiettato nel quadro del 1° Forum internazionale Generazioni nel cuore della Pace, dal 30 settembre al 2 ottobre. Una proiezione avverrà sabato 1 ottobre ore 13.00, Sala C, primo piano del Palacongressi. Consultare il programma per altre proiezioni. Se qualcuno ha tempo di andarlo a vedere mi farebbe piacere avere un riscontro. Chi non ha tempo o voglia può vederlo anche QUI, abbiamo risolto i problemi di scaricamento.

venerdì 23 settembre 2011

Vite (da profughi)


(c) 2011 weast
(c) 2011 weast


Due scatti nel campo profughi di Aida a Ramallah (23.9.2011).  Rifugiati palestinesi (lo statuto di rifugiato si tramanda nelle generazioni) in attesa di uno stato.

giovedì 22 settembre 2011

Come un cagnetto incrostato


(c) 2011 weast productions. Ramallah. Un bar. Ma non è la libertà.


Un ragazzino alto un niente, nervoso come un cagnetto incrostato e senza guinzaglio perso nel traffico all’ora di punta. Ha appena scagliato una pietra, un sasso grande un niente. Davanti a questo bambino palestinese, alla distanza di sicurezza che l'istruzione al combattimento tattico impone, otto soldati israeliani, schierati al centro di una rotonda: nervosi anch'essi, vestiti come in guerra, i fucili spianati. In mezzo ai due fronti un uomo che, improvvisamente, scaglia un sasso verso il bambino, mancandolo di proposito, ma facendolo correre a casa. L'uomo si volta verso i soldati e, con grandi gesti, li esorta ad andarsene anche loro. E se ne vanno, a bordo di enormi veicoli blindati. Sulla strada che porta a Qalandya, il grande posto di blocco a nord di Gerusalemme che conduce a Ramallah, va in scena il conflitto israelo-palestinese: non come lo conosciamo, ma come sarebbe potuto essere, con due parti in conflitto e un mediatore imparziale, capace e disposto a cantarle a tutti, israeliani e palestinesi. Scena di folgorante eloquenza, reale eppure così lontana dalla realtà. Gli Stati Uniti, attori principali nel processo di pace, la stessa Unione europea, non sono mai stati imparziali. Arbitri scesi in campo con il risultato della partita scritto sul taccuino. Truccato. Fossero soltanto i palestinesi a sostenerlo, potremmo anche sentirci puzza di bruciato. Lo dicono, invece, anche autorevoli organizzazioni israeliane, ciascuna specializzata nel suo settore: diritti umani, colonizzazione, controllo delle falde idriche, politica demografica. Frammenti che, incollati insieme, compongono un quadro chiaro: lo appendi alla parete e ti accordi che pende da una parte. Basta girare la testa di novanta gradi dalla scena appena descritta alla rotonda di Qalandya per capire da quale parte: ovunque  sorgono ordinate casette dal tetto in tegole, disposte a corona sulle cime delle colline (controllate le colline, non si stancava di ripetere Ariel Sharon). Sono le colonie israeliane, sorte in Cisgiordania, terra conquistata da Israele nel 1967 alla Giordania, che amministrava i Palestinesi che ci vivevano. Allora c'era stata una guerra d'aggressione a cui Israele aveva risposto. Oltre mezzo milione di coloni vivono, oggi, nella Cisgiordania che il presidente palestinese Mahmoud Abbas si appresta a chiedere di dichiarare Stato al mondo riunito a New York. Nessuno è mai riuscito a convincere un governo israeliano a sospendere seriamente la costruzione di colonie in Cisgiordania.
Supero il posto di blocco, entro nel campo profughi di Qalandya. Seduti sui muretti, poco distanti dalle torri in cemento dalle quali i soldati israeliani controllano la zona, decine di ragazzini. Non vedono l'ora di cominciare, di tirare sassi, di prendersi nuvoloni di gas lacrimogeno israeliano, pallottole calibro 5.56 ricoperte di gomma, bastonate e manette ai polsi. Incarnano le esistenze  spezzate dei campi profughi. Centinaia di migliaia di ragazzini lasciati senza una vera istruzione, con un solo slogan nella testa: sacrificarsi per la Palestina. Obbediscono agli ordini dei capiquartiere, dei capisquadra, adulti che hanno fatto l'Intifada del 1987, qualcuno, oggi cresciuto, anche quella del 2000.  L'Autorità palestinese, decisa a chiedere all'ONU di tenere a battesimo lo stato di Palestina, non se ne è mai curata. Servita, invece sì. Senza nulla da perdere, senza nulla da sognare, senza una vita nella quale investire i propri sogni, i giovani “shebab”, i ragazzi dei campi, sono sempre stati pronti a mobilitarsi: a tirare pietre, a sparare ai coloni, a farsi saltare in aria nei ristoranti e sugli autobus israeliani. Carne da macello a disposizione di una strategia della liberazione fallimentare. All'Autorità palestinese non sono mai piaciute le voci (poche, in realtà) che chiedono di ripensare le strategie della liberazione, che rivendicano la possibilità di costruire una società senza sacrificarla sull'altare della liberazione stessa, ma senza, per questo, sacrificare la lotta per l'indipendenza. Per i vertici dell'Organizzazione per la liberazione della Palestina l'esercito dei giovani nati nei campi profughi non ha mai avuto diritto a un riscatto anteriore il riscatto finale, quello della realizzazione del sogno di una patria. Chi nasce profugo sopravvive da profugo. Tutta una vita.
L'ultima curva e sono a Ramallah. Va tutto bene. Stanno spuntando nuovi palazzi ovunque, per strada il traffico è abbondante e caotico,  circolano belle macchine, la gente fa acquisti e la borghesia paga affitti di tutto rispetto. I cartelloni pubblicitari invitano a comprare cellulari, a cambiare gestore, a buttare il vecchio frigorifero. E a fare festa, perché l'Autorità palestinese è a New York per trasformare i Territori Palestinesi Occupati nello stato membro numero 194 chiamato Palestina. Sembra di stare a Hollywood. Quinte meravigliose, ma in cartone. Tenute insieme con la colla. Come le esistenze dei figuranti che popolano la città. Ramallah è una bolla di sapone, un esperimento finanziato dalla comunità internazionale, Stati Uniti, Europa. Per levarsi di dosso il senso di colpa di un approccio parziale e infruttuoso al conflitto israelo-palestinese e alle rivendicazioni dei palestinesi, ma soprattutto per capire se il denaro anestetizza le aspirazioni di un popolo, cominciando da una popolazione: quella di Ramallah. Il pensiero nascosto è questo: se l'esperimento funzionasse potrebbe essere tentato altrove, in tutta la Cisgiordania. La generosità dei donatori avrebbe così risolto il conflitto israelo-palestinese: addormentandolo. Non funziona. Ramallah dorme, ma ha un sonno leggero. La finzione di una vita normale è un cosmetico applicato su una ferita aperta.
In albergo chiamo un mio amico, un giornalista di Gaza. La gente ha paura, è in preda all'angoscia, mi spiega. Il voto sulla Palestina alle Nazioni Unite costituisce un'incognita per la popolazione della Striscia, per la quale nulla è cambiato: la stessa terra chiusa, gli stessi confini difficilmente attraversabili, lo stesso controllo esercitato dagli israeliani, dagli egiziani (anche dopo la “rivoluzione”), da Hamas. Temono, gli abitanti di Gaza, che la loro condizione possa addirittura peggiorare dopo la sfida lanciata dal presidente Mahmoud Abbas all'ONU, che la spaccatura politica e geografica fra la Striscia e la Cisgiordania possa farsi ancora più radicale: qualcuno (Israele, gli Stati Uniti?) potrebbe essersela presa davvero e complicare l'esistenza di una popolazione distribuita su una striscia di sabbia e abituata a pagare per tutti. Gaza non è Ramallah. A Gaza è tutto vero. Niente quinte in cartone. I soldi, se qualcuno li  ha mandati, non si sono mai visti.  (La Regione, 23.9.2011)

martedì 20 settembre 2011

Personaggi in cerca d'autore


In albergo. Stanza vuota. 

Divano. Ma per capirci senza un perfetto sconosciuto dietro la testiera ad ascoltare le cose che hai da dire o a fare stupide domande con le tue risposte scarabocchiate su un taccuino  con una grafia tale da renderle illeggibili. Quindi inservibili.  Insomma, niente strizzacervelli. Divano di casa e basta. Me ne sto sdraiato, a piedi nudi. Con la luce che entra morbida dalle finestre. Due bastoncini di incenso che fumano senza fretta.  Anch’io, senza fretta, faccio un giro. Dentro la mia testa. Rivedo tutto. Le ultime scene e quelle vecchie di anni. Mi ricordo ogni singola scena, da quando ho iniziato a filmare, e sono trascorsi più di dieci anni.  A volte le scene fanno casino, si mettono insieme, scene del 2002 con scene del 2008 con scene di una settimana fa. Sono tutte imparentate, tutte sorelle. Fanno bene,  dialogano e lasciano apparire similitudini e differenze.  Ecco i personaggi,  i sei personaggi in cerca d’autore: me li trovo davanti tutti insieme, e altro che sei, e in coro rivendicano di essere mie creature, perché sono io ad averli osservati, filmati, messi su una cassetta o una flash memory. Se sono così è perché io li avevo visti così.  Entrate pure nella mia testa, dalla quale non siete mai usciti. Se sono sdraiato sul divano è perché ero pronto, sono venuto io a cercarvi, perlomeno a segnalarvi che stavo arrivando. Non aspettavate altro, non fate che attendermi. Solo, fate piano, niente ressa. I vivi e i morti. I morti sono timidi e silenziosi, ci sono bambini, donne, guerriglieri, soldati. Alcuni interi, altri a pezzi. I bambini mettono il gelo, ancora, sempre. Gli altri si muovono con l’affanno nervoso e  terrorizzato dei feriti. Cercano il respiro, lo rincorrono. Gli amici, quelli che non ci sono più, che facevano il mio stesso lavoro. Li guardo, a uno a uno. Li assicuro che non dimentico nessuno e che non guardo nessuno con maggiore simpatia o compassione. Sono tutti  uguali ai miei occhi. Un po’ nascosta dietro agli altri personaggi c’è una figura femminile, il capo coperto, le mani magre e – lo so bene – ghiacciate. E’ la paura. Non le piace mettersi in mostra: la sua presenza la avverto subito. Osservo anche lei, la studio, la analizzo,  per capire come nasce, da dove, come si fa largo nella testa e poi dentro il corpo.  E’ un personaggio importante, c’è sempre. La paura non te la scrolli di dosso nemmeno quando non la provi. E’ sempre accanto a te, si fa piccola, minuscola, ma è pronta a gonfiarsi. La paura e la tensione. I nervi a mille. La testa che gira e fuorigira mentre cerchi di valutare una situazione, una via d’uscita,  quando devi pensare a tutto, anche a come portarti a casa vivo il tuo autista, che ha famiglia.  Finalmente! Benvenuti, fatevi avanti, spingete un po’, fatevi finalmente sentire: eccoli, gli autisti, gli assistenti, vivi, questa volta, ma in visita anche loro, insieme a tutti gli altri. Personaggi finiti dentro la memoria. Alcuni sono memorabili, mi strappano subito un sorriso che diventa risata. Ne abbiamo viste tante insieme, interi tragitti in automobile senza dire una parola dopo quello che avevamo appena visto, non c’era nulla da dire, da poter dire. Eppure, quanti altri momenti diversi, divertenti, fiammate nel buio, a riscaldare. Tutti insieme, tutti in visita. E’ così: c’è la vita e c’è la morte. Mai sole. Sempre insieme. Anche oggi, mentre me ne sto sdraiato sul divano. A dare udienza ai miei personaggi. Ai fantasmi di cui non posso e non voglio liberarmi: non sarebbe giusto, corretto nei loro confronti. Se ho voluto vederli, capire che cosa gli era successo, raccontarli, è altrettanto giusto e corretto che restino con me. Chiedo soltanto che vengano a trovarmi meno spesso, che a volte siano loro a dimenticarsi di me. Finora non mi hanno ascoltato. Credo mi ritengano invincibile, instancabile. I bastoncini d’incenso sono consumati oltre la metà. I personaggi si ritirano. Respiro, lentamente. L’immagine di un albero, gonfio di verde, è sempre stata la mia preferita. Ora ho soltanto quella davanti agli occhi. 

domenica 18 settembre 2011

Leggere una fotografia

Qui di seguito posto le riflessioni che alcuni scatti da Tripoli hanno innescato in una lettrice del Blog, Donatella. I riferimenti sono alle foto su FLICKR.

Le ripubblico qui, fedelmente, per semplicità di accostamento.

(c) 2011 weast productions
Il vento della guerra è passato. Ha sconvolto, percosso, frantumato. Davanti a l’occhio del fotografo ha poi ricomposto un cuadro surrealista. Possibile che il vento della guerra sia artista?




(c) 2011 weast productions
Siamo noi, ragazzi di Tripoli, che ora orchestriamo l’ordine, coregrafiamo la circolazione della città.
Ricordati, giornalista:
Con il nostro fucile ti fermiamo, ti possiamo uccidere.
Con un sorriso, ti lasciamo il passaggio e la vita.

(c) 2011 weast productions

Resta solo quello: un casco infilato su d’un palo. Soldato caduto? Soldato fuggito?
Rimane solo quello, di una vita, di un destino.
Ricorda tutte le tombe di tutte le battaglie dove si lascia solo quello: un casco.

(c) 2011 weast productions
Il ferito: lui attrae per prima la mia attenzione.
Un volto: masquera di esaurimento
Due occhi: concentrati di sofferenza
Poi, i compagni, con le ditta che segnano il “V” della vittoria.
Un leitmotiv ripreso al infinito al cui aggraparsi per tenere duro, per dire all’amico “devi farcela”.

sabato 17 settembre 2011

Cinema all'aperto

(c) 2011 weast productions
Che ogni istante della nostra esistenza ci resti attaccato addosso, come una pelle che ci siamo scelti, che finalmente ci siamo cuciti addosso. Ogni secondo, ogni immagine, ogni sensazione, ogni emozione. Soprattutto le immagini nanometriche, quelle che illuminano come fulmini: fermate nella memoria diventano costruzione, mattoni della nostra storia. E la vita degli altri: nutre la nostra vita quando il mistero delle scelte e delle condizioni viene colto nella sua radice. Si svela, allora, il senso, nella molteplicità delle letture possibili che sono alternative al destino tracciato. Il nostro.

giovedì 15 settembre 2011

Guerra

(c) 2011 weast productions
Il cortometraggio di 30 minuti sarà proiettato nel quadro della rassegna sulla pCe (Generazioni nella pace) che si terrà al Palacongressi di Lugano dal 30 settembre al 2 ottobre.

Mi è stato segnalato che è impossibile guardare il video fino in fondo. Sto provando a risolvere il problema, ma sono all'estero e non garantisco che riuscirò a farlo. Quando torno sarà il mio primo compito.

Guerra è il titolo di un cortometraggio di 30 minuti che ho appena terminato di montare. Rappresenta un tentativo di "fare pace" con quello che la guerra ti lascia dentro. Un tentativo, nient'altro. Questa pace, credo come pure l'altra pace (il contrario di guerra), è impossibile. Il video (con materiale inedito o in parte mostrato nell'esposizione Guerre tenutasi nel 2010 al Castello di Sasso Corbaro di Bellinzona) è per ora visibile QUI, in anteprima. Vi invito pero' a guardarlo prossimamente sul grande schermo. Le musiche sono dell'amico Sacha Rovelli, che è uno straordinario compositore ticinese. E' possibile richiedere il video su DVD.

sabato 10 settembre 2011

Scatti da Tripoli e dintorni

(c) 2011 weast

Alcuni scatti scelti da Tripoli e dintroni durante i giorni della battaglia per la capitale e successivamente a QUESTO indirizzo.

venerdì 9 settembre 2011

Il rap di Tripoli




(c) 2011 weast
Un gruppo di ragazzi che si mettono insieme per fare musica rap. Per dire quello che i giovani vogliono nella Libia che cerca la stabilità. Trascorrono le notti dentro uno stanzino trasformato in studio di registrazione. Non chiudono occhio. Per dormire c'è tempo. Nelle parole dei loro testi la rivendicazione di potere vivere liberi e di dire cio' che va bene e cio' che invece va cambiato. La loro storia è stata raccontata in QUESTA edizione del TG di RSI e su Euronews.

giovedì 8 settembre 2011

Le parole evaporate

(2011) weast
Quando le parole si sciolgono nella tua testa come il vapore di una nuvola resti in attesa che qualcuno scatti una fotografia. Del tuo silenzio. Non ti sforzi allora nemmeno piu' di rivendicare il fatto che la tua vita non ha smesso di dire qualcosa. Chi ti osserva riuscirà forse a svelarne il senso che resiste.

mercoledì 7 settembre 2011

Ritratto di un combattente

A Tripoli ho incontrato un ragazzo di 28 anni. Ha combattuto per 4 mesi a fianco dei ribelli. Per la libertà. Il suo ritratto è in questo filmato.

Qui Tripoli...

Sono stato ospite di Nicola Colotti, sulla Rete 1 di RSI (Radiotelevisione svizzera),  il 6 settembre 2011. Nicola è un giornalista curioso, umano e ironico, un collega che stimo molto. Il link per ascoltare la puntata, alla quale ha partecipato anche Antonio Ferrari, editorialista e opinionista del Corriere della Sera, è QUI oppure QUI.

domenica 4 settembre 2011

Dipendenza

(c) 2011 weast productions
E' sempre piu' dannatamente difficile andarsene. Lasciarsi alle spalle (per un po' di tempo almeno, il minor tempo possibile) la guerra. Gli spari di giorno. E quelli di notte. L'adrenalina. Esserci. La gente che ti confida con assoluta onestà le proprie idee e emozioni. La fiducia che si crea fra uno che stringe un Kalashnikov e tu che hai in mano soltanto una telecamera. Lui potrebbe ucciderti. Tu potresti filmarlo in modo da farlo risultare una bestia assetata di sangue. Se non ti uccide prima. Perché dovrebbe farlo? Tu non gli chiedi altro che di spiegarti chi è, di raccontarti la sua vita, cio' in cui crede. Nessuno ti uccide guardandoti negli occhi.