Raccontare


SPAZIO ALLE STORIE CHE NON SONO STATE RACCONTATE ALTROVE. ALLE PERSONE INCONTRATE E RIMASTE SUL TACCUINO. OPPURE A QUEI PENSIERI CHE MI PASSANO PER LA TESTA VELOCI COME UNA PALLOTTOLA: SE NON LI FERMASSI, LI PERDEREI.

lunedì 29 maggio 2017

Ascolta la fotografia.


Se ti piace la fotografia, SpazioReale te la racconta il 9 e l'11 giugno. Due serate di proiezioni all'aperto con due autori della Svizzera italiana: Sabine Cattaneo (vincitrice del primo premio dei Sony World Photography Awards nella categoria " Professionisti concettuale") e Jacek Pulaski (vincitore di numerosi premi nazionali e internazionali) presenteranno i loro scatti dialogando con Faccia da reporter. 

Immagini da guardare e da ascoltare presso l'Antico Convento delle Agostiniane, Bellinzona, quartiere di Monte Carasso. Entrata libera. In caso di pioggia gli eventi si terranno all'interno. 

venerdì 26 maggio 2017

Il senso del taccuino.

(c) 2017 weast productions / vietata la riproduzione.

Domani nel Senso del taccuino sulla Regione: "L'appropriazione del vuoto". Qui di seguito il consueto estratto:

La scia di un aereo nel cielo che ancora non cede alla sera. Il sole altissimo la colora di un certo rosa. Due ragazze la osservano. Provano meraviglia. Persino nelle parole. Bastasse questo a farci passare tutto. Quello che viviamo e che ancora vivremo. Bastasse a cancellare la violenza, l'odio, i torti. Non fare il poeta, vieni al dunque. 

Nel 2007 incontrai Abu Omar nel campo profughi palestinese di Ein el-Hilweh, in Libano. Abu Omar era il nome di battaglia di un un uomo palestrato dalla pancia in su, magro e fragile, senza dubbio ridicolo, di certo sproporzionato, dalla pancia in giù. A 37 anni, di battaglie ne aveva combattute tante. Era stato in Iraq, chiamato dai vertici di Al Qaeda per la sua esperienza, accumulata durante la guerra civile in Libano. Decisi di incontrarlo per registrare la testimonianza di un guerrigliero straniero (lui era palestinese, apolide, in fondo, nato fra le fogne del campo profughi) dentro il disastro iracheno di quegli anni. Un teatro di guerra che attirava giovani musulmani decisi a imbracciare le armi (e a tagliare teste), in un Medio Oriente a pezzi. Chi non ci lasciava la pelle tornava a casa, come Abu Omar, alimentando il ciclo della violenza che, gonfiandosi, avrebbe un giorno colpito il resto della regione e poi l'Europa. Ieri ho riguardato le immagini. C'è una scena: Abu Omar per strada, con due mitragliette Uzi (di fabbricazione israeliana, per dire com'è la vita) infilate nella cintura dei pantaloni, una sul fianco sinistro, l'altra sul destro, nascoste dal giubbotto di jeans (lercio): un ragazzino lo nota e gli si avvicina. Abu Omar gli passa un braccio attorno alle spalle e lo bacia sulla testa. Il ragazzino reagisce come se fosse stato toccato da una divinità. Senza dubbio da un eroe. Si illumina. L'immagine suggerisce l'impressione che egli sia improvvisamente cresciuto, non fuori (fuori rimane un moccioso), ma dentro, gonfio di qualcosa che si è messo in circolo, nel sangue, nei neuroni del suo cervello infantile. Orgoglio e spavalderia. La constatazione di quanto sia facile impossessarsi del futuro prossimo di un essere umano ancora giovane e piegarlo a un proprio disegno, per quanto malvagio esso possa essere, non fa differenza. Al contrario. 

venerdì 19 maggio 2017

In memoriam.

Stanley Greene (1949 - 2017, oggi).  Fotografo di guerra e non soltanto. Me lo ricordo a Tiro, nel sud del Libano, durante la guerra del 2006, fra i morti e i vivi, che sembravano morti anch'essi. 

mercoledì 17 maggio 2017

Viene fuori la vita.

(c) 2017 weast productions / all rights reserved
Tre ombrelloni. Viene fuori la città. Viene fuori la vita. A SpazioReale verranno fuori la città e la vita il 9 e l'11 giugno sera, dalle ore 21.15. Tenersi liberi/e. Arriva informazione, oh se arriva.




venerdì 12 maggio 2017

Il senso del taccuino.

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Domani nel Senso del taccuino sulla Regione: "L'arsenale della memoria". Qui di seguito il solito estratto. Eike, la protagonista, userebbe una parola parzialmente diversa:

Chiama “arsenale” il deposito della sua memoria. A trent'anni dipende da quello che ti è successo nella vita quanta roba c'è dentro, quanto ingombro. Ce n'è: nel suo caso. La mattina si alza presto, quando il quartiere di Kreuzberg a Berlino, nel quale abita, dorme ancora, quasi tutto, con quell'umanità di tiratardi che vive di notte. Si prepara un caffè senza cambiare il filtro del giorno prima, lo svuota soltanto (il contenuto finisce nel lavandino) e lo riempie di polvere alla caffeina, le piace il sapore della carta impregnata che sa di vecchio, di fazzoletto di carta bagnato e masticato, una melitta che nel suo fondo mette insieme ieri e oggi, due cucchiaiate di caffè e se la veda lui con il resto stantio che non finirà mai nella tazza, non aromaticamente, almeno non aromaticamente, ci finirà forse soltanto come una specie di ricordo: se lei era viva ieri e lo è ancora oggi tirate le somme è già qualcosa. Almeno questo. L'acqua fa: tic, tic, tic. Precipita a gocce dal deposito del filtro dentro la brocca trasparente che piano piano si riempie di liquido nero che lei chiama: brodo. In verità dice: «Meine tägliche Scheissbrühe».

domenica 7 maggio 2017

Vita.

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mercoledì 3 maggio 2017

Sorelle a Mosul.

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"Vivere", amico, è anche raccontare le cose come stanno. Come sta il mondo, per fare un esempio. Raccontarlo per quello zero che conti. Consapevole che non conti nulla. E che tutto accade nello stesso istante: le immagini di prima, quelle sotto, del post precedente, e queste. No predica, non sono un prete, non sono un politico. Allergia totale.

Dico: metti la tua vita dentro la guerra, dai un'occhiata. Sorelle a Mosul, chiamiamola così questa fotografia. Saranno ancora vive? Questa domanda mette me, che le ho fotografate, di fronte allo specchio della responsabilità e della verità. Che cosa ho fatto per portarle via da Mosul? Ho scattato una fotografia. Ci starà pure una confessione, oppure no? Eccola, appena consegnata. Non sono servito a nulla.

Quindi: le metto in mano al Blog. A voi. Alla vostra vita. Il giornalismo, oggi, deve essere resa dei conti con quello che sei. Chi sei, di fronte a questa immagine? Cosa sei? La verità del racconto del mondo (della guerra) sta, tutta quanta, nella disponibilità a finire a pezzi. E a trasformare i pezzi nei quali sei finito in parole, oppure in immagini, da ricomporre poi nella militanza che riconosce quale sola bussola il nostro-essere-al mondo trasformato (sì, sì, sì...) in resistenza. In resistenza per la vita. A costo di perderla. Ecco: a costo di perderla. Come succede. Oooh se succede, al fronte. Davanti, magari, a tre sorelle a Mosul. Ne vale la pena, garantito. Se ne vale.

Pensarci. Pensarci ne vale ancora di più. Pensare a come tutto, a questo mondo, accade nello stesso istante. Tu che respiri e leggi queste parole, e pensi alle sorelle, a dove sono. E loro. Dove sono le tre sorelle? Lo so che ci pensi. Siamo forti, dentro. Più di quello che pensano quelli che non hanno mai messo le chiappe in guerra. E parlano. Parlano. Oh, se parlano.

C'è un odore, qui attorno, di polvere da sparo. Ovunque. Vivere. Vedere che ce la fanno, che ce l'hanno fatta, dai...

Vivere.

Guardare la vita. E immaginarsela. Sia pure dall'alto, come un drone. Non c'è come resistere.

(c) 2017 weast productions / all rights reserved 
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