Raccontare


SPAZIO ALLE STORIE CHE NON SONO STATE RACCONTATE ALTROVE. ALLE PERSONE INCONTRATE E RIMASTE SUL TACCUINO. OPPURE A QUEI PENSIERI CHE MI PASSANO PER LA TESTA VELOCI COME UNA PALLOTTOLA: SE NON LI FERMASSI, LI PERDEREI.

giovedì 6 aprile 2017

Io, che sono morto a Mosul.

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Io, che sono morto a Mosul, sotto una bella bomba convenzionale, una di quelle che piacciono un po' a tutti, perché sa di guerra pulita e portata avanti come si deve, senza strappare dal sonno nessuno. Io che sono morto a Mosul sotto una bomba di 500 chili sganciata da un aereo. Io che sono morto a Mosul dopo che mia sorella era morta, prima di me, colpita sulla porta di casa da un mortaio. Io che che sono morto a Mosul dico a voi, che vi state agitando per l'attacco con il gas a Khan Sheikoun, vicino a Idlib, che non avete capito o non avete voluto capire o non potete capire che cos'è la guerra. Non ci siete stati. Io che sono morto a Mosul mi chiedo perché, quando me ne sono andato, i giornalisti non hanno fatto domande. Dove erano? Dove eravate? Dove erano le Nazioni Unite? Dove? Dove erano i loro servitori? E le loro servitrici?

Io, che sono morto a Mosul, pochi giorni fa, mi chiedo perché continuate a cadere nella trappola della guerra: pensate che ce ne sia una che si può fare con le armi convenzionali, quelle che fanno boom e basta, e una che non si può fare, con le armi che fanno boom e sprigionano gas. Ammazzano tutte, queste bombe, in fretta oppure lentamente. 

Voi soltanto avete deciso che le prime siano accettabili e le seconde non lo siano, che le prime vi permettano di andare a cena ignorando tutto e le seconde provochino (in voi, ancora) un leggero (e passeggero) senso della barricata.  

Io, che sono morto a Mosul, chiedo a chi in queste ore sta strappando i microfoni ai giornalisti per dire che la guerra in Siria (e perché non in Iraq?) deve finire, chiedo il silenzio della pietà e dell'onestà. Dove eravate quando cadevano (ed era ieri, ed è ora) le bombe convenzionali sulla mia città? Quelle bombe che rendono una guerra giuridicamente ineccepibile, che hanno l'effetto di un sonnifero, addirittura, il quale chiama il sonno. Il vostro sonno. 

Perché chiedere che una guerra debba finire soltanto quando si sprigiona un gas, e non prima? Il gas offre il palcoscenico sul quale celebrare la propria inutilità, scambiata per protagonismo umanitario. 

Io, che sono morto a Mosul, non sotto il gas ma sotto una bomba convenzionale di 500 chili, chiedo che stiano tutti zitti. Oppure che abbiano il coraggio di venire qui, quelli e quelle che parlano e parlano e parlano, che vengano a vedere come siamo messi e la smettano di dire che non possono. Per fermare una guerra non servono le parole. Serve il coraggio. 

 (La fotografia in testa al post si riferisce in senso metaforico al testo che hai appena letto, ha tuttavia per protagonista un piccolo abitante di Mosul).

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