Raccontare


SPAZIO ALLE STORIE CHE NON SONO STATE RACCONTATE ALTROVE. ALLE PERSONE INCONTRATE E RIMASTE SUL TACCUINO. OPPURE A QUEI PENSIERI CHE MI PASSANO PER LA TESTA VELOCI COME UNA PALLOTTOLA: SE NON LI FERMASSI, LI PERDEREI.

mercoledì 29 novembre 2017

Se.

(c) 2017 weast productions / all rights reserved.

La faccia che faresti
se venissero tutti a guardarti.
Per vedere:
se piangi o ridi,
se muori di fame,
se stai al buio,
se mangi e dormi,
se vai di corpo,
se sei viva o sei morta,
se sei viva quanto,
se sei morta come, e perché,
se puoi farlo vedere, come sei morta,
se le bombe ammazzano davvero,
se ti è rimasta una gamba,
o se ti è rimasto un braccio, se sei morta senza,
senza una gamba,
senza un braccio,
che brutta morte,
se preghi, se preghi,
se credi in dio,
se credi in dio,
se non ci credi.
Come, non credi
a niente?

Se ti vengono le infezioni.
Dove ti vengono.
Ci sarà un motivo.
Se ti lavi.
Se studi.
Se leggi.

Se commetti peccato.

Se fai all'amore.
Se sei sposata.
Se digiuni.
Se mangi cani.
Se mangi gatti.

Se ti tocchi.
Quanto ti tocchi.
Se pensi alla condizione delle donne.
Se sei per la libertà delle donne.
Se sei per l'asservimento delle donne.
Se sei coperta,
quanto sei coperta.
Se nascondi il volto,
quanto volto nascondi.
Se non lo nascondi: quanto
di esso
non nascondi. E perché.
Se nascondi i piedi.
O no.
Le mani.
O no.
Se sono scalzi,
i piedi,
o con le calze.

Se ti lacchi le unghie.
Quante?
Tutte?
Di che colore?
È importante.
Di che colore?

Se pensi agli uomini.
Ai maschi.
Quanto ci pensi.
A quanti.
A quanti nello stesso istante.
Se sei per o contro gli uomini.
Se ti piacciono gli uomini.
Se ti piacciono: le donne.
Rilasceresti, in questo
ultimo
caso,
un'intervista?

Se non ti piace nessuno.

Se pensi.
Quanto e quando.
Se sei sola.
Se sei male accompagnata.
Se fumi. Quanto. Dove.
Se fumi. Rispondi!
Se leggi libri.
Se ti senti sfigata per non essere
nata altrove.

Se fumi di notte.

Se rimproveri ai tuoi genitori
di essersi accoppiati a Gaza,
non altrove.
Di averti messa al mondo nella Striscia.

Se ti sei già fatta
una striscia.
Per sopravvivere.
Se sei contro le strisce.
Se attraversi sulle strisce.
Se ci sono le strisce:
a Gaza.
Se le auto si fermano,
quando sei 
sulle strisce.
O no.
Se ti piacerebbe che si fermassero.
Come si fermano
da noi.

Se hai qualcosa da dire
in televisione.
Da aggiungere.

Se hai ancora il ciclo:
con tutta la paura che hai avuto.
Se è vero che la guerra,
che la guerra:
rende tutti arrapati.
E fate figli.

Se pensi che poteva andarti peggio.
Se provi rabbia per chi
gli va meglio.

Se preferisci i fiori ai fucili.
Se hai mai imbracciato un fucile.
Se è vero che hai pianto:
quando un drone ha spappolato
tua madre e tuo fratello.

Se è vero che a Gaza si ride.

La faccia che faresti
tu
a essere nato a Gaza.

La faccia che faresti
davanti a quelli
che vengono qui e chiedono
della nostra vita.

Dov'è il reparto dei surgelati?
Dov'è la verdura.
La frutta, il pane.
Lo shampoo.
Il deodorante.
Il dentifricio.
Il filo inter-
dentale.
La mia vita.

La faccia che faresti
se tu fossi nato qui.
Non è perché mi ami,
non è perché ti amo,
che mi capisci.

E che sai
qualcosa
di me.


(Continua la serie di poesie inviatemi da Gaza. Autrice è una giovane donna che desidera restare anonima, che evidentemente non si rivolge a me in ciò che scrive, ma si rivolge a me per essere pubblicata. Il Blog la pubblica e apre, forse, una finestra su una realtà che siamo abituati a osservare appesantiti dai luoghi comuni. La traduzione è di Faccia da reporter, al quale manca il tempo per la costanza e traghettamenti più accurati).

sabato 25 novembre 2017

Guerra e filosofia.


IL SENSO DEL TACCUINO


(c) 2017 weast productions / all rights reserved.

Saperlo quanti civili ci hanno rimesso la pelle nella “liberazione” di Raqqa, ottenuta con le bombe sganciate dagli aerei, più che dalle forze in campo. Queste ultime hanno fatto da contorno al piatto principale. Folclore locale per telecamere, macchine fotografiche e per una versione della realtà che se non è una fake news, le assomiglia parecchio. La città sotto il controllo dello Stato islamico non è stata riconquistata dai curdi e dai siriani. Raqqa l'hanno martellata gli aerei militari. Non esistono mille modi per vincere una guerra. E non ne esistono di nuovi. Sottrarre una città al nemico è un incubo per i generali: è un lavoro sporco, che provoca vittime estranee al conflitto. Se si accetta la guerra quale strumento risolutorio, queste vittime sono inevitabili. Quelle di Raqqa le ha viste qualcuno? Qualcuno le ha fatte vedere? Non mi pare. È un po' come se non fossero mai esistite. Anche il celamento dei suoi effetti e delle sue conseguenze è parte costitutiva della guerra, in particolare di quelle che tendiamo a percepire come giustificate o giustificabili. Basta saperlo. In questo modo evitiamo di credere che Raqqa l'abbia liberata il Santissimo.  

La guerra non è roba per palati fini. Anche questo i generali lo sanno. In guerra succede di stringere un accordo con il nemico. A Raqqa ci starebbe anche la variante: un patto con il diavolo. Cos'hanno fatto i militari con quelli dell'Isis sopravvissuti ai bombardamenti? Hanno aperto per loro (e in alcuni casi per le loro famiglie) un bel corridoio. Li hanno invitati ad andarsene fuori dalle palle. Come lo chiamiamo, un corridoio siffatto? Umanitario? Questa soluzione ha evitato ulteriori bombe sulla città e ulteriore distruzione: intanto, però, al posto di essere in carcere o al cimitero, gli estremisti sfollati se ne stanno da qualche parte. Garantito che non hanno cambiato idea sul mondo.

La guerra è questa. È tutto questo.  

Da pochi giorni sono tornati alla ribalta i soliti noti a commentare la recente sentenza del Tribunale penale internazionale dell'Aja per l'ex Jugoslavia: il generale Mladic dietro le sbarre a vita per il massacro di Srebrenica et alii. Ben gli sta. Non so come vi siate sentiti voi, care lettrici e cari lettori: io avuto l'impressione di assistere a un sacco di gente in costume da bagno impegnata in un'abluzione catartica collettiva. Per qualche giorno c'era nell'aria un percepibile senso di liberazione. Di alleggerimento. Quasi che la sentenza dell'Aja, aldilà della contingenza specifica e del singolo individuo giudicato per le sue azioni, ci avesse tolto il peso di tutte le altre guerre in circolazione. Passate e presenti. 

Siamo fatti così: come un'automobile ibrida. Procediamo con due motori, alternativamente. Quando è inserito uno, applaudiamo la Corte che ha deliberato sui crimini di guerra e contro l'umanità nell'ex Jugoslavia. Quando è inserito l'altro, della guerra e dei suoi crimini (consumati altrove) ci dimentichiamo. Non registriamo. Non esistono. Oppure accampiamo scuse per dire che vorremmo tanto farci qualcosa, ma ce lo impediscono. L'essere umano è fatto di acqua e delle sciocchezze che dice. 

Scusa, Grossi, tu critichi e critichi, ma intanto c'è qualcuno che sta facendo qualcosa. Non ti pare? Se qualcuno me lo dicesse, avrebbe tutte le ragioni per farlo. Ma non avrebbe ragione. Ah, no? E perché mai? Perché una guerra produce macelli. Questi e basta. Se vogliamo evitare i macelli, evitiamo la guerra. La soddisfazione espressa da più parti per la sentenza dell'Aja è un'altra fake news. È la balla alla quale ci votiamo per non pensare che anche una “guerra giustificata”, una guerra le cui finalità ci sentiamo di condividere produce macelli. Spesso variano le dimensioni, certo. Ma qual è il criterio applicabile a un macello? Davvero soltanto il numero dei morti? Non ne basterebbe uno, di morto? 

Nel momento medesimo in cui ci viene spiegato perché dobbiamo provare soddisfazione (una comprensibile soddisfazione) per una sentenza che rivendica il primato dell'umanità sul disastro, sulla mostruosità, che cosa avviene? Avviene che, automaticamente, compiamo un passo indietro e ci allontaniamo dal baratro dentro al quale nessuno ha interesse che finisca il nostro sguardo. Se ci guardassimo, nel baratro, non saremmo in grado di provare la tanto auspicata soddisfazione per la vittoria del bene sul male. Il nostro sguardo si ritrarrebbe confuso, smarrito e noi cominceremmo a pensare. A pensare.  Pensare è un atto di libertà. Quindi pericoloso, guardato da alcuni con sospetto. A cosa penseremmo? A tutto ciò che siamo capaci di fare, di spingere a fare, anche di non fare. Penseremmo a cosa ci rende capaci di fare una guerra. Penseremmo alla guerra. A chi va bene e a chi va meno bene. A chi ci guadagna, in guerra e con una guerra. E a chi ci perde. Penseremmo al fatto che continuiamo a pensarci, alla guerra, pur sapendo ciò che produce. Penseremmo che una guerra dovrebbe essere impensabile, ma che non è così. 

Questa non è un'arringa in difesa del generale Mladic, o dei bombardamenti sulle città occupate. È un'arringa in difesa della nostra indipendenza e libertà di lettura del mondo. Che dovremmo essere nella condizione di esercitare soprattutto quando ci sentiamo dire che il bene ha finalmente trionfato sul male. 

Sono convinto che le categorie giuridiche andrebbero integrate con delle categorie filosofiche. Soltanto la filosofia (non la giurisprudenza da sola) può affrontare la guerra con lo scopo di smascherare e (in modo auspicabile) evitare ciò che essa produce. 

Ciascuna guerra ci mostra ciò di cui l'essere umano è capace. In questo senso, esiste un elemento conoscitivo fornito (ricavabile) dalla guerra. Una guerra dice qualcosa su di noi, sempre. Anche quando non la combattiamo oppure subiamo, ma sono gli altri a combatterla e a subirla. Siamo, cioè, capaci di tutto. La giurisprudenza che cosa fa? Sanziona questo “tutto” quando lo giudica “troppo”. È un'operazione di contenimento. Ma è anche un modo per dire che no, questo l'essere umano non lo può fare, non può volerlo fare, non può averlo fatto e tornarsene a casa come se non fosse mai accaduto. La giurisprudenza applicata alle sentenze dei tribunali speciali nati da questo o quell'altro conflitto (perché solo questo e quell'altro, e non tutti?) è, a posteriori, la reazione  dell'essere umano confrontato con l'esperienza di ciò di cui è capace, ma deciso a non compierla fino in fondo, tale esperienza. 

La filosofia va ben oltre. Osserva ciò di cui siamo capaci in guerra e conclude che ne sono capaci tutti, senza eccezione. Conclude che se accettiamo a posteriori l'applicazione di un'istanza giuridica a una guerra ormai consumata, il suo giudizio dovrà applicarsi a qualsiasi attore: dal fante di prima linea, al carrista, al cuoco, al cecchino, a chi ordina esecuzioni, a chi non fa prigionieri eccetera. 

Ecco: l'approccio filosofico definisce la guerra un crimine. In questo modo qualsiasi guerra e qualsiasi individuo in essa coinvolto sarebbero senza eccezioni penalmente perseguibili. Curiosamente, un tentativo di mettere fuorilegge la guerra c'è stato. E ne parleremo in un futuro Taccuino. Un siffatto approccio alla guerra (dovremmo dire: alle guerre) metterebbe al riparo i pubblici ministeri e i giudici dal sospetto di essere ignoranti di altre guerre (contemporaneamente combattute) e di essere di parte relativamente alla dipendenza (consapevole o meno, credo sempre consapevole) da quei poteri di cui le guerre sono espressione. L'individuazione dei crimini di guerra diventerebbe così un'operazione superflua, essendo ormai per definizione la guerra un crimine. Basterebbe avere premuto sul grilletto di un fucile. Averlo imbracciato, un fucile. Basterebbe produrre, vendere e acquistare armi. 

Il Tribunale penale internazionale dell'Aja è uno strumento ambiguo: un giorno finirà forse anch'esso sul banco degli imputati con l'accusa di complicità con la guerra. Istituzioni come la Corte penale sono subordinate all'idea che ci siano guerre accettabili e altre no, che ci sia un modo accettabile (e non perseguibile) di ammazzare un essere umano (anche un civile) e un altro che invece non è accettabile. Istituzioni come la Corte dell'Aja nascono dalla (scaltra) volontà di applicare giustizia in alcuni casi per non doverla applicare in altri oppure per evitare che qualcuno chieda spiegazioni relative ai casi di giustizia non applicata e mai fatta.  

Conclusione: non c'è istituzione giuridica più ipocrita di questo tribunale. Creato per fare giustizia relativamente ai crimini compiuti in alcune guerre. E per ignorare tutte le altre. E tutti gli altri crimini compiuti in nome della guerra. Espressi dalla guerra. All'Aja va in scena, a ogni sentenza pronunciata, l'egocentrismo profumato di Azzaro e spinto all'eccesso di chi cammina sulla moquette. All'Aja esplode l'orgasmo giustizialista di chi non ha il coraggio di dire che la guerra è un crimine contro l'umanità. Che tutte le guerre lo sono. Anche quelle che facciamo noi. Facendo finta di non farle. 

Cambierei opinione il giorno in cui vedessi, sul banco della Procura e difesi da essa, i superstiti di una famiglia decimata da un drone armato che ha scambiato una festa di matrimonio per una riunione di fottutissimi terroristi (ci andrei io a farli fuori). Cambierei opinione il giorno in cui Carla-la-sanguinaria-del-Ponte fosse infine costretta sotto i riflettori televisivi a rispondere alla domanda per una volta coraggiosa e per una volta giornalistica: “Che cos'è la guerra, signora?”. 

Se da lunedì (non verranno a prendermi nel week-end, voglio sperare...) non scriverò più sul Blog, portatemi una baguette con dentro la lima. Proverò a evadere. 


venerdì 24 novembre 2017

Domani nel "Senso del taccuino".

(c) 2017 weast productions / all rights reserved.

Domani nel Senso del taccuino su Faccia da reporter: "Guerra e filosofia". Qui di seguito il consueto estratto. 

Non c'è istituzione giuridica più ipocrita del Tribunale penale dell'Aja. Voluto per fare giustizia relativamente ai crimini compiuti in alcune guerre. E per ignorare tutte le altre guerre. E tutti gli altri crimini compiuti nella guerra. Espressi dalla guerra. All'Aja va in scena, a ogni sentenza pronunciata, l'egocentrismo profumato di Azzaro e spinto all'eccesso di chi cammina sulla moquette. All'Aja esplode l'orgasmo pseduogiustizialista di chi non ha il coraggio (o non è libero) di dire che la guerra è un crimine contro l'umanità. Che tutte le guerre lo sono. Anche quelle che facciamo noi. Facendo finta di non farle. 

Cambierei opinione il giorno in cui vedessi, sul banco della Procura e rappresentati da essa, i superstiti di una famiglia decimata da un drone armato che ha scambiato una festa di matrimonio per una riunione di fottutissimi terroristi (ci andrei io a farli fuori questi, se fossero davvero in riunione). 

Cambierei opinione il giorno in cui Carla-la-sanguinaria-del-Ponte fosse infine costretta sotto i riflettori televisivi a rispondere alla domanda per una volta coraggiosa e per una volta giornalistica: “Che cos'è la guerra, signora?”. 

Se da lunedì (non verranno a prendermi nel week-end, voglio sperare...) non scriverò più sul Blog, portatemi una baguette con dentro la lima. Proverò a evadere. 

giovedì 23 novembre 2017

Una pazza sul Mediterraneo.

(c) 2017 weast productions / all rights reserved.

Non mi fido più.
Delle parole.
Restano incollate 
alla lingua.

Sono una pazza.
Davanti alla finestra
spalancata sul Mediterraneo.


(Continua la serie di poesie inviatemi da Gaza. Autrice è una giovane donna che desidera restare anonima, che evidentemente non si rivolge a me in ciò che scrive, ma si rivolge a me per essere pubblicata. Il Blog la pubblica e apre, forse, una finestra su una realtà che siamo abituati a osservare appesantiti dai luoghi comuni. La traduzione è di Faccia da reporter, al quale manca il tempo per la costanza e traghettamenti più accurati).

domenica 19 novembre 2017

Nella tensione del pensiero.

(c) 2017 weast productions / all rights reserved.

Tu sai di me
cose che nemmeno Dio sa. 
Ho bestemmiato di notte.
Ho fumato a letto.
Ho pensato a te.

Leggo i libri all'incontrario:
dall'ultima lettera.
Dalla tua
prima lettera.

Non sapremo mai
dove siamo: all'inizio,
oppure già alla fine.
Noi due.

Tu conosci di me
cose che fanno
di Dio
uno superfluo.

Tu sai come io sono.
Per una volta.
Anche per un'altra.
Anche per un'altra.

Che giorno è, oggi?

Dimmelo.

Raccontami
una bugia,
una ancora,
se vuoi
che scriva
la tua vita.

Ho rubato inchiostro nero.
(Scalza. Senza paura). 

Mi sono fatta crescere le unghie.
La mia pelle è morbida.
Sono pronta.

Non potrei ripensarci.


(Continua la serie di poesie inviatemi da Gaza. Autrice è una giovane donna che desidera restare anonima, che evidentemente non si rivolge a me in ciò che scrive, ma si rivolge a me per essere pubblicata. Il Blog la pubblica e apre, forse, una finestra su una realtà che siamo abituati a osservare appesantiti dai luoghi comuni. La traduzione è di Faccia da reporter, al quale manca il tempo per la costanza e traghettamenti più accurati).

martedì 14 novembre 2017

Le tentazioni del signor Jansson.

(c) 2017 weast productions / internet.

La prossima estate mangeremo alle sei di sera. Se proprio vorremo fare tardi, lo strappo alla regola ci concederà un attovagliamento alle sei e trenta. Ci nutriremo di: Risgrynsgröt, riso al latte. E trinche marinate. Polpettine con i mirtilli. Ci gonfieremo di Still tallrik (arringhe). Ci tufferemo dentro l'ärtsoppa med fläskederemo, la zuppa di piselli gialli e maiale, e finiremo al pronto soccorso. 


Mi chiedo, da giornalista: come resisteremo alle köttbullar (polpette di cavolo)? Non resisteremo. Come daremo prova di carattere di fronte ai kåldolmar (involtini di cavolo)? Non la daremo. Qualcuno ha già resistito all'amore della sua vita? 

I Pepparkakor. La Skagenröra. E: Le Skarpsill, le lattine di arringhe che si trovano all'Ikea. I Lussekatter. E, infine. Infine le Janssons Festelse: le "tentazioni del signor Jansson".

Che cavolo di tentazioni avrà mai (avuto), nella sua vita, il signor Jansson? Lui che va a letto alle sette di sera, stanco morto? Strafatto di brännvin, l'acquavite speziata svedese.



domenica 12 novembre 2017

Non c'è più Speranza.

(c) 2017 weast productions / all rights reserved.

Ho deciso di scrivere un'autobiografia non autorizzata.

Da qualche giorno, lo avrete notato, sono sul gossip. Anche se non è più tale: è Storia, ormai. Cosa c'è di male? Sarebbe come rimproverare a un critico letterario di interessarsi alle singole lettere che compongono le parole e di trascurare le parole stesse.

L'ex portiere della nazionale femminile di calcio americana, che di nome fa Hope, ha accusato l'ex presidente della Fifa Sepp Blatter di averle palpato il sedere prima che salisse sul palco per officiare la consegna del Pallone d'Oro. Eravamo (erano, semmai, loro due) nel 2013. Per noi uomini non c'è più Speranza. Siamo condannati alle prime pagine, ai titoli.

E se si fosse trattato Solo di un pizzicotto? Di un riflesso senile?

Blatter nega tutto. C'è una fotografia di lui con un cerotto sul volto. È del 2015.

(c) 2017 / internet

"Sono diventato un sacco da box", aveva detto Sepp, davanti ai giornalisti. Non appartengo alla vasta famiglia dei complottisti, ma vuoi vedere che, a due anni di distanza?


sabato 11 novembre 2017

Elogio degli (uomini) imbranati.


IL SENSO DEL TACCUINO

© 2017 weast productions / tutti i diritti riservati

Su Facebook un uomo mi invita a un bagno armonico collettivo con campane tibetane. Mi insospettisco e chiedo info a un'amica. Mi spiega che è un evento aperto anche alle donne, ma che non si va dentro una Jacuzzi. Il ruolo dell'acqua è svolto dalle campane tibetane. Si fa meditazione. Che allegria. Per me, o è Jacuzzi oppure è zero.

Sono finito in un negozio bio, di quelli che una volta si chiamavano Reformhaus. Mi serviva dell'incenso e lì lo vendono. Un signore di una certa età stava raccontando alla commessa (di una certa età anche lei), che la sua prostata, eh la prostata, non è più quella di una volta. Glielo stava dicendo come se volesse tranquillizzarla, fornirle la certificazione di raggiunta innocuità. Ne sono uscito con l'incenso, convinto che non sono nato per frequentare negozi bio. Dovrebbero scrivere sulla porta: simpatici astenersi dal mandare candidature di lavoro.

I tedeschi, quando vogliono, sanno essere divertenti. Chiamano “softies”, con un vocabolo inglese, gli uomini che fanno la spesa nei negozi bio con la borsa in canapa, per non usare sacchetti di carta o di plastica. Francamente mi sta più simpatico chi se la fuma, la canapa. I “softies” sono uomini che non torcerebbero un capello a uno dell'Isis: non fanno del male a nessuno. A parte massacrarti se ti vedono buttare una lattina di alluminio in un cestino. L'alluminio si ricicla: tu che lo sprechi, muori. Siamo tutti un po' estremisti.

Se esiste una categoria che può dirsi al riparo dalle rivelazioni che stanno piovendo a dirotto in queste settimane relativamente a molestie e atti di violenza nei confronti delle donne, è quella dei “softies”. Per un maschio, sono i nemici più temibili. Sono pronti a giurare che ce l'abbiamo dentro, la violenza, e siccome preferiamo una Jacuzzi a un bagno armonico con le campane tibetane ne facciamo uso. Si sbagliano. Esiste un'altra categoria di uomini capaci di fare loro concorrenza: gli uomini imbranati.

Posso scrivere un elogio degli uomini imbranati? Sarà una dichiarazione di simpatia per quelli che non sanno dove guardare e finiscono sempre con il guardare nel posto sbagliato, vale a dire le tette. Per quelli che non vedono l'ora di bere un caffè (con una donna) e ordinano sempre un cappuccino perché gli lascia più tempo per pensare a cosa fare dopo. A cosa dovranno dire. Questo è un elogio degli uomini paralizzati dalle aspettative prodotte dal loro essere uomini. Questi uomini esistono.

Non so se leggete il Taccuino di mattina o di sera. Di tempo per guardarvi attorno ne avete, è il week-end. Guardatevi in giro al bar, per fare un esempio. Non a mezzanotte. Alle dieci del mattino, quando al posto del mojito, del prosecco, del vermentino, del grecoditufo, del martini secco, del campari (si beve ancora, il campari?), dello champagnino, di quellochevuoi, ecco: al posto di tutto questo, uno ordina un tazza grande senza latte e un cornetto. Diosanto: un cornetto. Li avete visti, questi maschi? Questi uomini? Hanno di fronte o accanto la collega di ufficio o una perfetta sconosciuta e non sanno cosa fare con gli occhi, dove metterli, se potessero li prenderebbero in mano e li infilerebbero nella tasca sinistra della giacca. Li avete mai sentiti parlare? Avete mai ascoltato le parole che escono loro dalla bocca? Avete mai prestato attenzione alla narrazione intavolata (nel senso letterale di: messa sul tavolo, fra le briciole del cornetto e, non è da escludere, qualche macchia debordata dal tazza grande)? Se quelle parole fossero l'inizio di un libro, lo leggereste? Nemmeno con un Kalashnikov puntato alla tempia lo leggereste. Meglio morire.

Quegli uomini che alle dieci di mattina del lunedì dicono a una donna: “Ieri sono andato in montagna con un mio compagno di scuola”. Come! Vai ancora a scuola? Frequenti i corsi per adulti? “Nooo, è un vecchio amico di vent'anni fa”. Ah, però: sei uno fedele alle amicizie, tu. “Guarda, è che sua moglie la domenica si vede con le altre mogli e quindi ci siamo beccati su Facebook”. A questo punto, se sei una donna, come sei una donna, cosa fai? Ti butti nelle braccia del barista. Della barista. Ne avresti il diritto. Sia chiaro: tu da questo uomo non vuoi nulla, non ti aspetti nulla. Significa, tuttavia, che ti devi prestare al tormento? Hai diritto a un racconto del mondo con un minimo di trama. Diciamo: di suspense. Lascia stare. Trovarla, la suspense.

Esistono anche uomini (imbranati) che pensano che le dieci del mattino siano le dieci di sera: cominciano a gettarti occhiate, uguali a freccette scagliate sul bersaglio al Club degli Sfigati, che regolarmente frequentano. Non le capisci, quelle occhiate, perché non significano nulla: non le capiscono nemmeno loro.

Hai presente quelli che hanno i figli ormai grandi e allora portano in giro il cane (solitamente di razza), facendo finta che sia l'ultimo nato? “Che cariiiinooooo!” Questione di attaccare bottone. Sì, va bene, ma dove lo attacchiamo questo bottone? Dopo averti illustrato la biografia del cucciolo, timidamente cominciano a parlarti dell'Inter. Dell'Inter? Mi hai scambiato per un'altra, un altro?

Gli uomini che fanno l'avvocato. Oppure il chirurgo. Li vedi? Il direttore di banca. Il procuratore. Che fanno i politici. I giornalisti. Il giudice. Il poliziotto. Il cittadino indignato. Li vedi? Li inquadri? Li capisci? Ti guardano al semaforo, tu di qua, loro di là, un attimo, un attimo soltanto, prima di attraversare con gli occhi bassi (loro con gli occhi bassi), e sperano che ti rivedranno domani. Te lo fanno capire costringendosi a non guardarti. È un cilicio che si infliggono. Vanno a letto dicendo una preghiera, anche se non ne dicono mai: fai che la riveda. Si innamorano mentre inspirano. Ce ne sono. Inspirano e si innamorano. Quando espirano sono morti. Non morti davvero: cotti. Che è praticamente come.

Gli uomini che non sanno cosa dire. Sperano che la macchina nuova gli dia un aiutino, quello dei quiz: “Me lo dà un aiutino, signor presentatore?”. Te lo scordi! Gli uomini che vedi al ristorante, seduti al tavolo davanti a una donna, e raccontano una marea di fesserie, oppure cose sensatissime, riassunti interminabili di viaggi interminabili (“peccato tornare a casa”) lo sanno, lo sentono, si ascoltano mentre parlano, vorrebbero dire altro, ben altro. Cosa vuoi fare? Ammazzarli? Si ammazzerebbero da soli.

Gli uomini che stanno attaccati al telefonino, nella speranza di trovare un post divertente da condividere. La fotografia di una cena consumata in diretta da un collega di ufficio, l'attore famoso che Facebook garantisce trattarsi di sosia (“Guarda, gli assomiglio!”), cosa-ancora-diosanto? Cosa? Quegli uomini che raccontano gli amori passati, vissuti fino in fondo (credergli...) e finiti male. Oppure ti parlano della loro ex moglie. Di come non li abbia mai capiti. Ti descrivono gli interventi subiti o i controlli ai quali si sottopongono con regolarità (“meglio essere prudenti”): la gastroscopia, la colonoscopia, l'elettrocardiogramma sotto sforzo. Confessano di avere il braccio del tennista, così capisci che giocano a tennis. Immensodio: il Tennisarm! E ancora: la pancia del giocatore di golf. Come si dirà in tedesco? Il Golferbauch? Le cervicali. Le lombari. Le malattie incurabili tuttavia curate (“Da allora rinuncio alla carne, quando posso”. Quando puoi? Questa sera, allora, non potevi...). Le gambe spezzate sciando a... Dove? Parla! Metti-dio-santo-una-parola-dopo-l'-altra! Il ginocchio. Il menisco medesimo. La cuffia della spalla. La, scusa? Il vero asso nella manica è l'illustrazione delle letture preferite, i grandi classici letti e riletti. Tolstoj. Ah, Tolstoj. Quella prosa... O era Ibrahimovic? No, scusa, ho letto Ibrahimovic, mi stavo sbagliando, l'altro è un giocatore. La vita che ricomincia a 50 anni. Tutto qui. Vai. E lascia andare.

Una infinita e inarrestabile tenerezza ispirano questi uomini. Si alzano per andare a pagare la cena. Ti aprono la portiera dell'automobile. Mettono il CD di Vasco Rossi (tutto preparato, da una settimana se non più) e quasi gli viene da piangere guidando, nella notte e nella pioggia, con le spazzole che fanno un rumore di carezza sul vetro, mentre la musica li porta a quando avevano 20 anni e adesso sono lì che pensano e ripensano se sia il caso di prenderti la mano. Di allungarne una, una delle loro, si capisce. Di darti un bacio. Metti pure: guidando. Gli uomini imbranati esistono. Non allungano le mani perché non sanno come si fa. Gli devi saltare addosso, altrimenti non succede nulla. 

venerdì 10 novembre 2017

Il senso del taccuino.

(c) 2017 weast productions / all rights reserved.

Domani nel Senso del taccuino su Faccia da Reporter: "Elogio degli (uomini) imbranati". A partire dalle 07.00. Qui di seguito il consueto estratto:

Su Facebook un uomo mi invita a un bagno collettivo con campane tibetane. Ocristo. Mi insospettisco e chiedo info a un'amica. Mi spiega che è un evento aperto anche alle donne, ma che non si finisce dentro una Jacuzzi. Il ruolo dell'acqua è svolto dalle campane tibetane. Si fa meditazione. Che allegria. Per me, o è Jacuzzi oppure è zero.

Noi maschi abbiamo sottratto ai mutandoni con la barba dell'Isis le prime pagine e i grandi titoli. Adesso capisco come si sente un musulmano normale accusato di essere un terrorista: si sente come me. Da giorni la cassiera della Coop mi guarda in modo diverso. Prova sospetto nei miei confronti. Non perché pensi che sia un terrorista, ma perché sospetta che io sia come Weinstein e compagnia. 

Ho deciso di scrivere un elogio degli uomini imbranati. Esistono anche loro. Sarà una dichiarazione di simpatia per quelli che non sanno dove guardare quando hanno di fronte una donna e finiscono sempre con il guardarle le tette. C'è dell'altro, ma lo scoprirete solo leggendo. 

giovedì 9 novembre 2017

La vita è profonda in superficie.

(c) 2017 weast productions / tutti i diritti riservati.

Sabato 11 novembre, nel Senso del taccuino (sul Blog), scriverò controcorrente: proporrò un Elogio degli (uomini) imbranati. Quelli che non ti mettono le mani addosso (perché non sanno come si mettono). 

Questa sera parto dal gossip internazionale. È una cosa seria, come vedrete e mi auguro come riuscirò a spiegare.  


Per un attimo il mondo è sembrato tornare al suo posto. Anzi: proprio a posto. Mariah Carey ne avrebbe fatte (anche fatte vedere) di tutti i colori a una sua ex guardia del corpo di sesso maschile. Finalmente un uomo che accusa una donna di molestie e violenza. Non è facile essere nati maschi e dovere leggere, ogni giorno, tutte quelle denunce contro i nostri compagni di squadra. È un po' così, no? Siamo una squadra, noi uomini. Procura un certo sollievo sapere che una, almeno una si sarebbe resa colpevole di atti impropri nei confronti di qualcuno dei nostri. Suvvia: date un'occhiata alla Carey. Sarebbe in grado di violentare un uomo. Esagerato? Diciamo allora: di molestarlo, di molestarlo sì, di imbarazzarlo, ecco, sicuro come domani è venerdì. Dai che è che iniziata la riscossa, il pareggio non è lontano. 

Questo, care lettrici e cari lettori, non è gossip. È il prologo a riflessioni di semantica applicata e critica lessicale. La parola al centro dell'attenzione è “bodyguard” o guardia del corpo nella traduzione italiana. Non esiste alcuna manifestazione della vita che non sia capace di portarci in profondità, alla scoperta di ciò che la superficie non lascerebbe mai immaginare, o forse sì, anzi senza dubbio di ciò che essa addirittura anticipa. Il gossip è una di queste manifestazioni anticipatrici: innesca lo scandaglio fatto scendere dentro il nostro essere umani. Il gossip sta alla filosofia e al ragionamento come la cronaca sta alla Storia. Sto per produrne la dimostrazione.

Nel caso di Mariah Carey accusata da una sua ex guardia del corpo di atteggiamenti e attenzioni poco piacevoli qualcuno deve avere interpretato alla lettera la parola “bodyguard”. Chi dei due? La Carey avrebbe mostrato, stando alla versione dell'accusatore, il suo “body” a lui che aveva per compito messo a contratto quello di tenerle gli occhi addosso. Su questo non credo ci sia dissenso: una guardia del corpo distratta o che si rifiuta di guardare il corpo della cui protezione è incaricata non è una guardia del corpo. È un'altra cosa. La signora Carey sembrerebbe essere andata oltre nello sforzo interpretativo della parola (e della funzione da essa espressa). Parrebbe avere pensato che il corpo in questione (il suo) andava guardato anche quando era nudo e magari non soltanto, a maggior ragione quando era nudo e avvinghiato a un altro corpo: in quei frangenti può accadere di tutto, siamo d'accordo. Senza sguardo addosso, Mariah sarebbe stata un corpo sguarnito. Pensateci: quando veniamo al mondo, nudi, compiamo l'esperienza della nostra massima fragilità. Non è che l'anticipazione di tante esperienze che verranno: andando avanti con la vita, ci capiterà infatti di ripetere questa esperienza e di riprovare (anzi: di provarla consapevolmente) la sensazione (la certezza) della fragilità. I vestiti con i quali andiamo in giro sono il nostro “body armor”, vale a dire la nostra armatura. In pochi possono permettersi, oltre a questa, anche un “bodyguard”, vale a dire un occhio benigno costantemente puntato su di noi. Chi se lo può permettere, potrebbe esigere (e chissà che non esiga) che l'occhio sia sempre vigile e puntato. Anche quando l'armatura cade. È impossibile escludere che la signora Carey non sia giunta proprio a questa conclusione. Sostenuta ormai non più da uno sforzo di interpretazione del significato della parola “bodyguard”, ma da una (fosse pure inconsapevole) ricerca etimologica della sua origine e del suo significato: “uno che guarda il corpo (di un altro)”. Di lì a dire: “il mio corpo”, e di lì ad aggiungere “guardarlo sempre”, il passo potrebbe (dico: potrebbe) essere stato breve.  

Esistono parole ed espressioni che non vanno prese alla lettera, altrimenti generano disastri. Vanno prese in senso metaforico. Il disastro di cui potrebbe essere stata responsabile Mariah lo abbiamo capito: sembrerebbe essere scaturito da un'interpretazione letterale (forse astutamente letterale) della parola “bodyguard”. E la guardia del corpo, di che cosa potrebbe essere responsabile? Di troppa fretta, e di scarsa prudenza di fronte al vocabolo che definisce la sua professione. Potrebbe essersi detto: cosa vuoi che significhi? Guardia del corpo significa uno con i muscoli, la pistola e un walkie-talkie che sta attento che nessuno si avvicini troppo alla persona (alla pop star, nel caso che discutiamo) della cui protezione è incaricato: quando finisce il suo turno rientra a casa o in albergo per fare palestra, bersi un succo di frutta, mandar giù un anabolizzante e dormire. È ipotizzabile che la guardia del corpo si sia fidata troppo della parola che illustra la sua professione, sorvolando (forse per ignoranza o incompetenza) sull'ambiguità che cela. Nel momento in cui la signora Carey gli avrebbe chiesto di prenderla alla lettera e quindi di guardarglielo per davvero, il corpo, di esserne la guardia in senso letterale, il “bodyguard” si sarebbe sentito chiamato a svolgere un compito per il quale non era stato assunto (e pagato). Di lì la denuncia. 

A questo punto, sta per accadere qualcosa nelle nostre riflessioni. Sta per avvenire un rovesciamento. In fondo, la signora Mariah Carey sembrerebbe (ammesso che le accuse tengano) avere optato per l'interpretazione più semplice e scontata della parola guardia del corpo: non soltanto l'avrebbe presa alla lettera, ma avrebbe rifiutato alla lettera l'ambizione di significare qualcosa d'altro, il desiderio di liberarsi da un significato immediatamente decifrabile. Prendere le parole alla lettera ci risparmia la fatica di riflettere su ciò che significano realmente. 

Potrebbe essere stata invece la guardia del corpo ad affrontare il ragionamento più sofisticato, assegnando alla parola “bodyguard” e al ruolo al quale essa fa riferimento il significato di tenere alla larga i fans più esagitati e, se del caso, di mollare qualche ceffone, quando non addirittura qualche pugno. Ha insomma concluso che la sua funzione è quella del “gorilla”. Interessante: eravamo partiti dando tutto sommato dell'ignorante alla guardia del corpo. Scopriamo, ora, che ha compiuto un ragionamento complesso: ha rifiutato il significato letterale ed etimologico di guardia del corpo, in particolare nelle sue interpretazioni più estreme o ardite o gagliarde, per non dire piccanti (il significato forse auspicato dalla signora Carey) di “guardia che guarda il corpo anche quando il medesimo è nudo”; deve avere intuito che “guardia del corpo” è una metafora (il corpo lo proteggi, non lo guardi per vederlo fare altre cose, nemmeno quando ti chiedono di guardarle); infine, ha concluso che questa metafora è ambigua, è una trappola tesa dalla sua esperienza letterale (guardami sempre!), ma anche dall'interpretazione (fare la guardia non significa guardare sempre, ma se non guardo sempre la signora Carey, quella si incazza!). Per sottrarsi a tale ambiguità, il poveretto ha quindi affidato a un'altra parola la descrizione della sua funzione professionale al fianco di Mariah Carey: la parola “gorilla”. Lui è stato, per un certo periodo di tempo, il suo gorilla. 

Anche questa, però, è una metafora. Una guardia del corpo non è per davvero un gorilla. È solitamente grosso come un gorilla, ma non è un gorilla. Non esiste però alcuna garanzia capace di escludere che qualcuno, un giorno, si aspetti che faccia cose e si comporti da gorilla, oppure, in modo diverso, che uno, rifiutandosi di farle in virtù della conoscenza del significato metaforico della parola, si ritrovi ad accusare qualcuno per avergli invece chiesto di comportarsi in senso letterale. Ci fermiamo qui, per oggi. Vedete, tuttavia, come partendo da un fatto di gossip si possa giungere a ragionare su qualcosa d'altro. La profondità della vita sta sempre in superficie.

Domani sera la consueta anticipazione del Senso del taccuino. In attesa che venga ospitato dal nuovo portale che lancerò in gennaio. 

lunedì 6 novembre 2017

Per allegria.

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Date in pasto ai cani
la mia vita.
Date loro
le mie dita.
Si prendano gli occhi:
si sazino.

Prendano i miei amori.
Due, forse tre.
Segreti e mai consumati.

Rimangano loro fra i denti
i filamenti -
più forti della verità -
e indigesti.

E finalmente.

Staranno
così
alla larga. Al largo
del mare, dal quale vengono
ogni notte.
Con la fame di farmi.

Di farmi a pezzi.

Ve lo chiedo per pietà.

E per allegria.

(Continua la serie di poesie inviatemi da Gaza. Autrice è una giovane donna che desidera restare anonima, che evidentemente non si rivolge a me in ciò che scrive, ma si rivolge a me per essere pubblicata. Il Blog la pubblica. La traduzione è di Faccia da reporter, al quale manca il tempo per la costanza e traghettamenti più accurati).


sabato 4 novembre 2017

Tutto un altro scrivere.


IL SENSO DEL TACCUINO

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Ho speso 48 franchi per una fotografia. Se il mio barbiere non mi avesse offerto il taglio e la regolata alla barba, affrontati prima e in funzione dello scatto, sarebbero stati di più. Tutto questo per partecipare alla lotteria dalla quale potrebbe uscire una green card americana assegnata al sottoscritto. Ammetto di essere preoccupato dopo le parole del Presidente Trump, che vorrebbe togliere dalla circolazione il gioco al lotto dei permessi di soggiorno regalati. L'ha detto un po' da rozzo, ma l'America è il suo Paese. Ha il diritto di dire e fare ciò che desidera, in particolare dopo avere appreso che l'attentatore di New York era giunto negli USA con uno di quei permessi (all'uzbeko l'avevano dato sulla base di che cosa, della sua faccia?). Io, però, non sono quello. Vorrei andare in America per diventare famoso. Anche l'attentatore è diventato famoso. Io voglio diventarlo in modo diverso, si capisce: voglio diventare uno scrittore famoso. In America sarebbe tutto un altro scrivere. 

Sto per dire una cosa che sembrerà un enorme inchino (lo sembri pure), di certo andrà contro la versione ufficiale del mondo, diciamo la più diffusa. Non aveva tutti i torti il Presidente Trump quando ha scritto, a caldo, in uno dei suoi Tweet, che l'attentatore di New York è “un malato di mente”. Lo dico per avere incontrato numerosi familiari di attentatori e attentatrici (suicidi e suicidatisi, dopo avere portato con sé molte vite innocenti) e, a memoria, dopo averne incontrato almeno uno, sopravvissuto alle pallottole delle forze dell'ordine in Israele, anni fa. Un ragazzino. La mia conclusione è questa: nessuna delle persone autrici di stragi di massa di cui sono stato testimone presentava, nella ricostruzione fornita dai familiari oppure direttamente (il caso del ragazzino) un quadro mentale stabile. Non sono un medico per certificarlo (i medici, tuttavia, non hanno l'esclusiva della certificazione), ma questo ho capito: i mandanti degli attentati portati a segno avevano ogni volta saputo appropriarsi di una predisposizione, chiamiamola così, esistente. Ho conosciuto e intervistato anche qualcuno che teorizzava e giustificava gli attentati suicidi (in particolare palestinesi): le teorie e le giustificazioni valevano per i figli degli altri, mai per i loro.  

Ho conosciuto e intervistato un pilota di caccia F-16, lasciamo stare di quale paese. Fosse stato un chirurgo, mi sarei fatto operare subito, anche senza necessità, per il piacere di finire sotto i suoi ferri e sotto i suoi occhi. Ero sicuro che mi sarei risvegliato in una condizione migliore di quella antecedente l'anestesia e l'(inutile) operazione. Era un essere umano perfetto: convinto di bombardare la zona XY (lasciamo stare dove) per una causa giusta e indiscutibile. Era anche  innamorato della sua famiglia, composta di moglie e due figli. Dopo l'intervista, mi sono chiesto chi avevo avuto di fronte per trenta minuti. La mia conclusione è stata: una persona equilibrata e, con ogni probabilità, sana di mente. Tuttavia, quell'uomo era convinto che anche le bombe o i razzi partiti dal suo F-16 e finiti fuori bersaglio (per sua diretta ammissione), vale a dire finiti sui civili avessero, in realtà, centrato un obiettivo se non giustificato, almeno in qualche modo giustificabile. 

Ecco come siamo messi noi esseri umani. Costa fatica concluderlo e scriverlo. Probabilmente costa anche qualche rischio. Siamo capaci di compiere atti terribili e terrificanti. L'attentatore e l'aviatore non realizzano la stessa azione. L'attentatore vuole uccidere vittime innocenti. L'aviatore vuole colpire il nemico combattente, ma torna a casa la sera e sorride alla famiglia anche quando la sua azione, partita da motivazioni diverse, ha prodotto (per errore) lo stesso risultato dell'azione dell'attentatore, colpendo dei civili: torna a casa convinto (ma quanto?, davvero, quanto?) di avere agito in virtù di una causa superiore, quindi trascendente (la ragion di stato, la sopravvivenza del proprio paese, le sorti della guerra ecc.). 

Questi due esempi riassumono il mondo per com'è messo oggi e per come lo percepiamo: attraversato da guerre e attentati. Una loro possibile (e praticata) lettura tende a metterne in evidenza la relazione che, sintetizzando e semplificando, è questa: la violenza produce violenza. A questo livello di interpretazione vengono solitamente aggiunte considerazioni di carattere geostrategico, politico, storico, religioso eccetera. Il mio approccio è diverso: questi due esempi (insieme a molti altri) ci permettono di guardare dentro l'essere umano, quindi dentro di noi. È il motivo per il quale mi interessano.

Che cosa genera violenza? Che cosa ci rende capaci di produrla? Dove corre la linea che separa la malattia dalla perfezione? Il pilota che ho intervistato sarebbe forse per davvero potuto diventare un chirurgo. L'attentatore di New York avrebbe potuto salvare una vita, due vite, tre vite, invece che spezzarne otto. Sono finiti dentro qualcosa, una sorta di nebbia elettrica ed elettrizzante, prodotta non dagli alieni, ma da altri esseri umani, consapevoli, per intelligenza ed esperienza, di come sia facile piegare la nostra mente, farla propria. Come sia facile impossessarsi di noi e convincerci che ciò che facciamo sia la cosa giusta da fare. 

L'orrore che proviamo di fronte alla violenza ci induce a chiudere gli occhi, anche soltanto per un istante. 

È una forma di autoconservazione, di protezione. È istinto di sopravvivenza. Nell'istante in cui l'essere umano produce violenza, spezzando vite, nel modo più rozzo oppure più sofisticato, rivela qualcosa che riguarda tutti noi, rivela qualcosa che ci guarda. Per non essere visti e per non guardarci, chiudiamo gli occhi. Produciamo, ciò facendo, un'immagine.

Per raccontarla, questa immagine, mi piacerebbe andare in America. Qui non la so scrivere. Non come la scriverei laggiù. Ecco perché mi serve la green card

venerdì 3 novembre 2017

Il senso del taccuino.

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Domani nel Senso del taccuino su Faccia da reporter: "Tutto un altro scrivere". A partire dalle ore 07.00. Qui di seguito il consueto estratto:

Ho speso 48 franchi per una fotografia. Se il mio barbiere non mi avesse offerto il taglio capelli e la regolata alla barba, affrontati prima e in funzione dello scatto, sarebbero stati di più. Tutto questo per partecipare alla lotteria dalla quale potrebbe uscire una green card americana assegnata al sottoscritto. Ammetto di essere preoccupato dopo le parole del Presidente Trump, che vorrebbe togliere dalla circolazione il gioco al lotto dei permessi di soggiorno regalati. L'ha detto un po' da rozzo, ma l'America è il suo Paese. Ha il diritto di dire e fare ciò che desidera, in particolare dopo avere appreso che l'attentatore di New York era giunto negli USA con la lotteria dei permessi di residenza (all'uzbeko l'avevano dato sulla base di che cosa, della sua faccia?). Io, però, non sono quello. Vorrei andare in America per diventare famoso. Anche l'attentatore è diventato famoso. Io voglio diventarlo in modo diverso, si capisce: voglio diventare uno scrittore famoso. In America sarebbe tutto un altro scrivere.