Raccontare


SPAZIO ALLE STORIE CHE NON SONO STATE RACCONTATE ALTROVE. ALLE PERSONE INCONTRATE E RIMASTE SUL TACCUINO. OPPURE A QUEI PENSIERI CHE MI PASSANO PER LA TESTA VELOCI COME UNA PALLOTTOLA: SE NON LI FERMASSI, LI PERDEREI.

sabato 26 aprile 2014

Swiss Press Photo 14

La foto vincitrice, di Mark Henley
© 2014 Swiss Press Photo
Ho constatato con piacere che un mio scatto realizzato in Siria è stato segnalato dallo Swiss Press Photo 14 (Fondazione Reinhardt-Von Grafenried), il concorso che segnala le migliori foto giornalistiche dell'anno 2013.  Tutte le immagini sono riunite nel catalogo edito da Benteli e sono tutte da scoprire nell'esposizione itinerante, ad esempio al Landesmuseum di Zurigo dall'1.5 al 6.7 2014. Della giuria faceva parte anche Anja Niedringhaus, la fotogiornalista tedesca recentemente uccisa in Afghanistan: il Blog desidera ricordarla qui nuovamente.

Lo scatto segnalato
© 2014 weast productions



venerdì 25 aprile 2014

Un vecchio senza paura.

Sul canale Youtube di Weast TV abbiamo pubblicato il video che documenta l'arrivo di Khazan Gul Tani all'ospedale militare della base operativa Salerno a Khost, nell'Est dell'Afghanistan, girato nel giugno del 2009. Del mio incontro con questo straordinario personaggio racconta "Il Senso del Taccuino" di sabato 26 aprile 2014 pubblicato dal quotidiano svizzero La Regione. Il video può essere guardato cliccando QUI.

Ho rivisto il signor Tani il 22 aprile 2014 a Brugg, nel Canton Argovia, dove ha tenuto una conferenza davanti ai giovani. Ci lega quell'incontro in Afghanistan e l'intervista che ha accettato di accordarmi mentre stava lottando per la vita nel pronto soccorso americano della base Salerno. Questo video ne propone un lungo passaggio. Khazan Gul Tani, che oggi ha settant'anni, dedica la sua vita, mettendola a repentaglio, alla costruzione di scuole nell'Est dell'Afghanistan e a una resistenza pacifica affinché, spiega, il suo Paese sia un giorno davvero libero da ingerenze esterne. Seguirà versione con sottotitoli in inglese / English version (subtitles) follows.

Khazan Gul Tani / © 2014 weast productions

Il senso del taccuino.

Khazan Gul Tani / © 2014 weast productions 

Domani nel Senso del taccuino sulla Regione: Un vecchio senza paura. Qui di seguito il solito estratto:


Rivedere una persona che hai incontrato per la prima volta quando era vicina alla morte tanto così non è come rivedere un vecchio amico. È di più. Un proiettile gli aveva appena trapassato un polmone: il paramedico dell'esercito americano stava urlando nella radio di bordo dell'ambulanza che c'era un foro d'entrata in alto a sinistra sul petto e un foro d'uscita in basso a sinistra nella schiena. L'autista teneva gli occhi sulle buche nel terreno, le sospensioni della jeep mandavano un rumore d'inferno. Ululavano. Sulla barella era sdraiato un uomo con la barba bianca, la pelle cotta dal sole, un corpo magro che assorbiva ogni scossone. Si lamentava il meno possibile, concentrato nello sforzo terribile di non mettersi a urlare. Tossiva, faticava a respirare, dalla gola usciva un gorgoglio soffocato di sangue e saliva. Lo stavo filmando, passando da un primo piano del suo volto ai piedi, alle mani del paramedico che infilava un ago, metteva della garza sulle ferite. Ero atterrato qualche giorno prima nella base operativa dell'esercito americano a Khost, nell'Est dell'Afghanistan. Eravamo appiccicati alla frontieta pachistana. La base aveva un nome familiare: Salerno. Il nome e basta. Il resto era un incubo: razzi e mortai che cadevano ogni giorno dalle colline circostanti. Aspettavo un elicottero che mi avrebbe portato nel posto di combattimento avanzato Herrera. Ammazzavo il tempo, come si dice. Anche se, a Salerno, rischiavi di essere ammazzato tu dal tempo: più passava, più ci andavi vicino. Quel giorno finii vicino alla vita di Khazan Gul Tani, nel momento preciso in cui stava riflettendo se abbandonare il corpo asciutto di quel signore oppure restare. Alla fine, la vita decise di restare. 

domenica 20 aprile 2014

"How many minutes", second part.

© 2014 weast productions
È online sul canale Youtube di Weast TV la seconda parte della versione inglese del Web Doc How many minutes three years of war. Puoi guardarla cliccando QUI.

sabato 19 aprile 2014

Nei sotterranei della vita.

Weast TV pubblica sul suo Blog (visibile cliccando QUI) e sul suo canale Youtube (visibile cliccando QUI) la versione italiana della seconda parte del Web Doc Quanti minuti tre anni di guerra. Continua così la riflessione alla ricerca di un linguaggio con il quale raccontare la vita degli altri, di farlo come se raccontassimo la nostra o qualcuno fosse venuto a trovarci per raccontarla.

© 2014 weast productions

venerdì 18 aprile 2014

Trovare il linguaggio.

© 2014 weast productions
Quanti minuti tre anni di guerra è il primo episodio del Web Doc che Weast TV dedica ai profughi siriani in Libano e che rientra in una serie più ampia che lancio qui con l'obiettivo di riflettere su un interrogativo sempre più presente e stringente: come raccontare la guerra affinché anche chi non la vive in prima persona riesca a capire davvero che cos'è, riesca a sentirla sulla propria pelle. Trovare, cioè, il modo di incollarcela addosso, la guerra, il linguaggio per scoprircela davanti agli occhi, senza sentirci né buoni né cattivi, non fosse altro - e sarebbe già tanto -  per intuire che cosa voglia dire davvero chi ci chiede di dargli una mano per fuggirla.

Potrai guardare il video passando attraverso il Blog di Weast TV cliccando QUI oppure direttamente sul canale Youtube di Weast TV cliccando QUI. La versione inglese del video è disponibile a QUESTO indirizzo.

venerdì 11 aprile 2014

Il senso del taccuino.

(c) 2014 weast productions
Domani, sabato, nel Senso del taccuino sulla Regione: "Un duplex nel cuore di Beirut". Qui di seguito il solito estratto:

Le è venuta la faccia da profuga. A furia di starci dentro, a questa vita. Anche messa così, le capita ancora di ridere, questo sicuro. E di pensare a Dio. Puoi stare tranquillo che ci pensa, ne ha di cose da dirgli, di domande da fargli. Ad esempio questa: perché a me, perché ai miei figli? Perché è toccata a noi, questa vita? Se già le mette paura chiederlo, la paura vera la prende quando l’assenza di una risposta diretta lascia il posto al sospetto che in realtà la risposta le sia stata data, rimbalzata chissà da dove: Perché non a te? Resta, allora, soltanto lo specchio incollato sulla porta, una sua idea per suggerire l’illusione che la stanza sia più grande di tre metri per due e fatto anche per guardarsi dentro. Dentro ci trova soltanto la sua faccia da profuga, né triste né allegra, lei la definisce un po’ spenta e come se qualcuno ci avesse passato sopra una mano di unto, impossibile toglierselo quello, nonstante si lavi, ogni mattina e ogni sera, con l’acqua scaldata dentro un secchio da muratore, avrà anche perso tutto, ma non lavarsi, questo mai. Si chiama Manal, 36 anni, divorziata. Fatica a credere che qualcuno le stia chiedendo di raccontare la sua vita. 

giovedì 10 aprile 2014

Miseria, se non è chiedere troppo.

"La mia vita da profuga è passare da una stanza all'altra. Dico stanza, ma non sono stanze quelle che ho visto, non è una stanza quella in cui sopravvivo con la mia bambina. È un buco ricavato dentro il cemento che trasuda umidità da ogni lato e sull'umidità si forma una peluria verde e grigia che manda un odore irrespirabile e malsano. Ci rende malati, tutti quanti, dopo che ci ha ammalati la guerra, il parto della sua creatura mostruosa, la paura, che si è mangiata la nostra testa e i pensieri che ci stavano dentro. Pago l'affitto senza sapere come, con i mesi scoperti che si accumulano, per questa casa che non posso maledire perché se lo facessi dovrei pensare che sotto le bombe si stava meglio. Mendico la pietà che mi si lasci vivere almeno nella miseria." (Una madre siriana - Continua).

(c) 2014 weast productions


mercoledì 9 aprile 2014

The Rat Line

Facciadareporter consiglia la lettura di questo documento giornalistico, leggibile cliccando QUI. Il filo del ragionamento e delle rivelazioni ricondurrà a notizie lette e ascoltate in passato. In parte, almeno. Con la domanda che resta: perché allora non dire subito, anche in passato, tutta la verità? Perché non l'ha detta, senza ambiguità e dannosissime generalizzazioni, chi poteva e forse sapeva?

Da prendere con le molle, come tutto a questo mondo, ma anche dando il credito che merita all'autore per la profonda serietà del suo lavoro. E per il sollievo che, in mezzo alla tragedia, tuttavia procura il constatare che una testa pensante e non asservita è capace di produrre una visione del mondo non allineata. I lettori del Blog sapranno fare il loro esercizio di memoria.

Definizioni.

Definizione di guerra: "La guerra significa paura, angoscia, terrore per quello che può succedere ai bambini, instabilità, ingiustizia".

Definizione di vita da profuga: "Non ho mai pensato che un giorno ci sarebbe successo tutto questo. Pensavo: stai dormendo, è un brutto sogno, fra un po' ti svegli! Non è così, sono sveglia".

Definizione di la vita com'era prima (fino a otto mesi fa): "Ad Aleppo abitavamo al quarto piano. Di giorno entrava il sole. Non c'era traccia di muffa. I bambini avevano la loro stanza e dormivano da soli".

Definizione di quello che ti aspetti dagli altri: "Pietà, credo che mi aspetto questo. Pietà per chi soffre".

(Fonte: donna siriana di 35 anni, madre di quattro figli, profuga fuggita da Aleppo - Continua).

(c) 2014 weast productions

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martedì 8 aprile 2014

Smontare le parole.

Abbiamo spostato l'angolazione in Medio Oriente, per qualche giorno. Occhi aperti, tuttavia, sull'Ucraina, che abbiamo intensamente seguito nei giorni della crisi. L'invito di Facciadareporter è, per il momento, di leggere e ascoltare attentamente i linguaggi utilizzati, le parole. Passate le parole ai raggi X, perché è attraverso le parole che si fa la storia, si fanno le guerre, si cambiano i confini, si fanno le rivoluzioni e le pseduo-rivoluzioni, si difendono le cause onorevoli e quelle senza onore ma con tanti interessi. L'ideale è accedere alle fonti nella lingua originale, se non è possibile si faccia ricorso a traduzioni integrali e il più possibile affidabili. Lo sguardo sul mondo che rivendica il nostro ruolo di individui capaci di critica è uno sguardo consapevole e capace di risalire alle fonti. Circa l'Ucraina siamo, di nuovo, di fronte a uno scenario destinato a preparare lo scontro frontale e a trascinarci, nella nostra qualità di "opinione pubblica", da una parte piuttosto che dall'altra. Il meccanismo è trasparente davanti ai nostri occhi. Basta osservarlo, leggerlo. Basta ascoltare le parole che circolano e rimbalzano ovunque, gratuitamente amplificate dai mezzi di informazione. Basta poco, per smontarle, queste parole. 

Una donna.



(c) 2014 weast productions

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« Non ho più nulla ». Quando una persona, che ti sta davanti e ti sta parlando, ti consegna questa frase è tuo dovere cercare il modo di evitare che si spenga. Che cosa significa « non avere più nulla » nella vita ? Se questa persona è in fuga dalla guerra, puoi provare a dirle che, per fortuna, ha ancora la vita. Il problema è che lì dove vive, dietro una porta che non chiude fuori nulla, nemmeno la miseria, in un appartamento-spelonca, in una stanza invasa dall’umidità e dalla muffa, l’ultima cosa a cui pensa è che questa sia una vita. E non lo è, non è vita. A questa persona puoi provare a dire che non è la sola al mondo costretta in queste condizioni. Non risponde dicendo che va bene, ma intanto ci sono dentro io, con i miei figli. Non risponde e basta. Ti guarda in silenzio e accetta di essere guardata, come donna e come madre con i suoi figli asmatici che hanno i polmoni rovinati dalla muffa. Chiede soltanto di non fotografarla, perché ha paura. Dice che « non ho più dignità ». Serve una forza difficilmente immaginabile per ammetterlo ed accettare che uno sconosciuto ti guardi. Lo dice perché per accettare di vivere come sta vivendo lei devi spegnere qualcosa, dentro il cervello, devi neutralizzare le resistenze che altrimenti ti farebbero dire che così non si può vivere. 

Come fare affinché la frase di questa donna non si spenga? E quale linguaggio trovare, inventare, a quale linguaggio affidarsi affinché giunga anche agli altri, a tutti, tutti noi ? Di quale linguaggio fidarsi ? C’è un modo per rivendicare la dignità di questa donna, della sua esistenza e resistenza ? Di farlo così che essa si innesti nel corso normale delle giornate, con tutte le cose che ci sono da fare, a cui pensare, a cui stare dietro, che non sia un pensiero che si impone, ma un pensiero che accompagna. Pensare alla vita di questa donna come se fosse normale farlo, come fosse normale pensarci : non uno sforzo, non un compito, non una parentesi. Come respirare, invece. E quindi senza in fondo pensarci, perché viene naturale. Come fare affinché la vita di questa donna diventi, per noi, uguale al respiro, importante, indispensabile?

Non è teoria e non credo nemmeno sia retorica da buonismo. Se vogliamo continuare a raccontare e a farci raccontare il mondo, qualche domanda dobbiamo farcela. Non per sentirci in colpa, non si tratta di questo. Per sentirci vivi. (Continua, quale prologo alla pubblicazione della serie alla quale sto lavorando).

(c) 2014 weast productions



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lunedì 7 aprile 2014

Un mojito al bar della vita vera.


(c) 2014 weast productions
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A Beirut sei dentro un film. Dove anche le comparse si muovono (e vivono) interpretando un copione da protagoniste. A Beirut è così e basta : tutti sotto le luci della ribalta, in prima fila a rubarsi la parte. Beirut è un interminabile amplesso con la vita. In realtà bastano cinque minuti per essere un campione. Il vanto – lo sbandieramento cronometrico – è affidato a una corsa in macchina, a una sgommata, a un semaforo bevuto col rosso come un superalcolico, oppure a una tirata chenonfiniscepiù a un sigaro metti pure di seconda categoria ma se gli togli l’etichetta chi ti contesta la fumata tarocca ? Beirut è un amplesso con la vita che va avanti anche quando ormai dormono tutti, convinti di essere ancora svegli. Il sogno porta avanti la realtà, e uno più sogna, più c’è per davvero. Beirut è i suoi palazzi gialli con le tende frangisole che dal verde sono passate al grigio. E la Beirut spaziale, ultramondana : una bolla trasparente e accecata di luce dentro la quale ti immergi per ritirare dei soldi al bancomat, e lo fai come se stessi bevendo un mojito al bar che tutti ci fanno la fila per entrarci, roba da ultimo grido, e più occhi hai addosso più godi, si capisce. Nei prossimi giorni Faccia da reporter e Weast TV vi proporranno altri gridi. Altri occhi e altri sguardi da questi occhi. Sommersi. Quelli di quelli che non risultano, che non ci risultano. Siamo qui per preparare un racconto, e siccome siamo a Beirut ci viene da dire – ispirati da questa città – che sarà diverso da tutti quelli che vi siete sentiti raccontare fino ad ora. Daremo alle comparse (quelle vere, quelle che non fanno statistica, quelle che vivono sotto la crosta della vita) un copione da protagoniste.  

venerdì 4 aprile 2014

Anja.

Anja Niedringhaus
12.10.1965 - 4.4.2014
(foto tratta dal sito anjaniedringhaus.com)
È un mestiere così. Lo fai perché nella vita è quello che le dà un senso. E dà un senso a te. Perché, probabilmente, è il solo modo per capire la vita: che cos'è, chi siamo. Anja Niedringhaus non mollava, coraggiosa come soltanto le donne sanno esserlo. Coraggiose per davvero. Aveva sempre conservato uno sguardo umano sul mondo, che ritroviamo in tutti i suoi scatti. Lo sguardo di chi ha capito che siamo capaci di tutto: di distruggere, uccidere, ma anche di ricostruire e di sacrificarci. Sacrificarsi per il senso che dai al tuo lavoro di reporter, di fotogiornalista. Un senso altissimo ed esclusivo. Il senso di una missione. Di un amore che prende tutta la vita, fino a portartela via, te la chiede. Anja, che tu possa essere serena, dove sei. Questo pensiero non consola, sappilo, il dolore è profondo.

Per un ricordo di Anja Niedringhaus, fotografa dell'Associated Press uccisa questa mattina nell'est dell'Afghanistan da un poliziotto locale, rinvio alle indicazioni di SpazioReale accessibili cliccando QUI. La collega di Anja, Kathy Gannon, writer presso la stessa agenzia AP, è rimasta gravemente ferita nell'attacco.

Stressante. Come la guerra.

Weast TV pubblica un video che Facciadareporter aveva girato in Afghanistan, all'interno di una base militare americana. Lo mostriamo per agganciarci alla sparatoria avvenuta a Fort Hood, in Texas, dove un soldato ha ucciso tre compagni prima di spararsi. La situazione filmata spalanca una finestra sulla paura: la paura che i soldati non possono scollarsi di dosso, nemmeno quando non indossano una divisa e non combattono, nemmeno quando la guerra cercano di dimenticarla. Per una volta ci dedichiamo non ai civili, prigionieri di una guerra, ma a chi indossa una divisa. Prigioniero della paura, che diventa stress e poi Disordine da stress post traumatico. E che forse, anche in Texas, si è tradotto come spesso si traduce: nella impossibilità di uscire dalla guerra una volta vissuta sulla propria pelle. Il post di Weast TV lo potete leggere QUI. Il video può essere guardato QUI.

giovedì 3 aprile 2014

I racconti dell' "uomo trasparente".

Desidero ringraziare la redazione della rivista Cenobio per l'ospitalità nel numero appena uscito e in particolare Daniele Bernardi per la sua intervista che non mi ha lasciato altra (benvenuta, quasi attesa) scelta, nelle domande e nelle riflessioni che mi ha sottoposto, se non quella di fare il punto su alcuni pensieri che da tempo mi girano per la testa.



mercoledì 2 aprile 2014

Scatti libanesi.

SpazioReale vi propone di scoprire una giovane fotografa libanese che a modo suo sta trasformando in immagini l'atmosfera che si respira e si vive in Libano. Per guardare le fotografie di Natalie Naccache cliccate QUI e seguite il link di SpazioReale.

Un (maledetto) calzino bucato. E (ancora) l'Ucraina.

Abbiamo fretta e dimentichiamo al volo, convinti che con qualche pensiero in meno perderemo anche qualche chilo. Si sta avvicinando l'estate, vuoi vedere: siamo tutti a dieta. Può capitare, d'improvviso, che comperando un paio di scarpe (scarponcini da lavoro) la persona che te le sta facendo provare ti chieda: "E l'Ucraina?". Okkristo, l'Ucraina! È vero, c'era anche quella fino a una settimana fa. La domanda mi è sembrata imbarazzante: non per la curiosità che esprimeva, ma perché mi è stata rivolta mentre ero in calzini e disperatamente cercavo di celare un buco in quello destro, che è anche il piede più lungo e quindi impossibile non provare una scarpa nuova su quello… Un buco nel calzino non fa nemmeno tenerezza, fa sfigato. La faccio breve: mentre cercavo, ridicolo!, di nascondere un non nascondibile foro in punta, mi sono ricordato anch'io dell'Ucraina, in particolare del fastidio e del sospetto provato vedendo a Kiev i gruppi di squadristi di estrema destra, e coltivando, fino ad oggi, la meraviglia di fronte al ritardo con cui la stampa occidentale si è interessata a questo argomento. Per poi dimenticarlo subito, a dieta anche la stampa occidentale. Suggerisco la lettura di QUESTO articolo di Anna Nemtsova apparso su Foreign Policiy. Non va dimenticato che la giornalista è russa e che, come tutti noi, porta con sé probabilmente anche un certo modo di vedere il mondo, nel caso in discussione l'Ucraina, una zavorra culturale e biografica. Insomma: la vede da russa. Detto questo, e nonostante questo, è un quadro lucido quello che ci propone. Guardatevi anche il video di cui a un certo punto nell'articolo si parla e che riaggancio a quanto dicevo nel post sull'olio di ricino. Ricordo, tuttavia, che la maggioranza delle persone sul Maidan di Kiev chiedeva e ancora oggi chiede un sistema politico pulito: persone che con questi gruppi di estrema destra non hanno nulla a che fare, non con la loro ideologia, non con la ridicola (ma impressionante) carnevalata delle loro divise e dei passamontagna neri calati sul volto. Questo invito per dire che cosa? Probabilmente che vivere con gli occhi aperti è meglio. Meglio di? Meglio che perdere qualche chilo, convinti che a questo scopo aiuti anche perdere la memoria.
© 2014 weast productions