Raccontare


SPAZIO ALLE STORIE CHE NON SONO STATE RACCONTATE ALTROVE. ALLE PERSONE INCONTRATE E RIMASTE SUL TACCUINO. OPPURE A QUEI PENSIERI CHE MI PASSANO PER LA TESTA VELOCI COME UNA PALLOTTOLA: SE NON LI FERMASSI, LI PERDEREI.

martedì 26 novembre 2013

Ti sconto io!

© Faccia da reporter
La rivoluzione non è una vacanza. Sono uscito di casa. Con il mio cartello e la mia frase. Freddo boia. Poca gente in giro. È un inizio. Per capire come mai, se hai una tessera fedeltà presso un graaaande magazzino e dichiari di tifare per una squadra di hockey ti fanno lo sconto sul premio della cassa malattia. Le macchine trascorrevano, davanti alla panchina occupata. Hanno rallentato. Qualcuno ha lavorato di freno e ha girato gli occhi: guardaaaa, un barbone! Noooo, aspetta, ha un cartello, ci ha scritto una frase. Oddio, a quest'ora? Aspetta: ma cosa vorrà dire? È un inizio, ladies and gentlemen. Chiedo scusa, sin d'ora, per le prossime assenze causate dal lavoro. E tuttavia: ormai lanciato pur di non passare per fessacchiotto! Segue. Anche (va detto, cristosantissimo) con il vostro aiuto. Occupy whatever. Tutto quello che vi capita sotto mano: una panchina, il bancone di un caffè, l'attesa a un semaforo, una cena al ristorante, la vostra scrivania in ufficio, un SMS, una mail. Un pensiero. Lasciate un bigliettino, uguale quanto grande. E scriveteci sopra: "Ti sconto io". Poi, staremo a vedere. Gli hashtags su Twitter sono #occupywhatever e #tiscontoio.

© Faccia da reporter

Questa sera scendo a fare la rivoluzione. Da solo, per cominciare.

Mai avuta una carta cliente, niente. Me la tiravo, dentro di me, pensando ai quei poveretti che invece la tirano fuori a ogni benedettissimo pagamento alla cassa. A questa o a quella. E che sorridendo alla cassiera – che non c'entra – danno intanto libero accesso alla propria dentiera (pulita con quale prodotto?), alle proprie ascelle (deodorate con quale roll-on?), al proprio letto (movimentato da amplessi consumati con quale preservativo?), al proprio stomaco (riempito con quali spaghetti, quali surgelati, quale cioccolato, quale sacrosantissimo cazzo di prodotto?). Mai avuta nemmeno una squadra del cuore, non di calcio, non di hockey, puro zero, ci mancherebbe. Altre passioni. Oggi, tuttavia, mi accorgo che il fesso sono io.

Qualche ora fa ero seduto davanti alla consulente della mia (mia, si fa per dire) assicurazione malattia (corna e scongiuri, per quello che valgono e servono, alla mia età, con la mia vita...). Questione di grattarci uno sconticino, due franchi di qua, uno e mezzo di là. E, santiddio, vedi un po' come vanno le cose, uno sconto ci starebbe. Ci starebbe? Ci starebbe. Facciamocelo, allora, questo sconto, cara signora. Pausa. E nuovo paragrafo.

La consulente mi chiede: “Lei ha la carta Manor?”. Ossignur, la cosa? “Nel qual caso le faremmo, caro il mio signor Grossi, un bel dieci percento di sconto”. Scusi, r-i-p-e-t-a. “Un bel dieci percento di sconto”. Ho il cervello che passa in rassegna le mie cards alla velocità di una mitragliatrice. Senza trovare il bersaglio. “Lei è tifoso dell'HCL?”. Mi scusi? “Ma sì, lei è tifoso dell'Hockey Club Lugano?”. Ma signora, io, io, non lo so, da ragazzo ascoltavo le partite alla radiolina, con l'auricolare che sembrava un catetere infilato nell'orecchio, poi le ho perse, per qualche anno, lavoro all'estero, sa com'è..... “Quindi, niente Manor e niente HCL?”. Nuovo paragrafo.

Niente. E allora: niente sconto. Sulla mia fottutissima salute.

La mamma è morta in aprile. Per fortuna la medicina ha inventato il modo per farci andare via (i somali dicono invece che i morti “si nascondono soltanto”, mi piace come idea) senza davvero capire come ce ne andiamo. Senza soffrire. Possibile? È quello che ci dicono i doctors con facce serissime, facce da paura. Qualcosa gli credo. 

Oggi – proprio oggi – ho ricevuto (intestata alla “comunità ereditaria”, restiamo infatti soltanto mio fratello ed io) una fattura della stessa cassa malattia. Vanno ancora pagati - a sette mesi da quando lei "si è nascosta" - 45 franchi sulle spese originate dagli ultimi mesi che mia madre ha trascorso sulla terra, dagli ultimissimi giorni in ospedale, in un letto - devo dirlo, per correttezza -  che lei trovava "comodissimo". Pagare, gentilissima e ormai evaporata signora Grossi. Si capisce: non aveva la carta Manor e non tifava per l'HCL, non gliene fregava un emerito nulla. A capo due volte.

Ho deciso che manderò la fattura residua alla Manor e all'HCL. È poca roba. La paghino loro. Sicuramente non c'entrano un accidenti, ma allora: perché me li citano prospettandomi lo sconto come fai vedere un salvagente a uno che è in mezzo al mare? È un po' che lo dico, fra le righe e anche meno: rivoluzione! Dobbiamo farla. Se non la facciamo, la fanno loro. Ci fanno fessi loro. Con o senza carta Manor. Con o senza cuore che batte per l'hockey.  Questa sera scendo per strada. Da solo, okay, ma è un inizio. Nuovo paragrafo.


Quei 45 franchi non li pagherò mai. È la prima barricata. In attesa che magari qualche personaggio politico (uno o una che "dedica la propria vita al bene della gente") si faccia vivo. Ultimo paragrafo.

La prossima volta faccio il nome dell'assicurazione. Così magari ci capiamo meglio.

(Se avete fatto simili esperienze scrivete a info(at)weastproductions.tv).

lunedì 25 novembre 2013

Una proposta al telefono. E la vita che voglio.

© 2013 Massimo Pacciorini
Ieri abbiamo chiuso l'esposizione Afghanistan: lo sguardo dei suoi fotografi a SpazioReale. Desidero ringraziare personalmente (oltre che la mia squadra, Rossana, Luca, altri ancora, tutti quelli che ci credono e ci hanno lavorato, okay?) tutte le persone che l'hanno visitata, alcune compiendo anche un viaggio di parecchi chilometri. Riempie di soddisfazione leggere il Libro degli ospiti, i commenti che i visitatori vi hanno scritto. Messaggi che testimoniano un interesse e una attenzione nei confronti del mondo e della vita degli altri. Di più: amplificano, ecco, la sete di sapere, di vedere, di scoprire. E ancora: esprimono la disponibilità a lasciarsi coinvolgere nelle vite che queste immagini mostrano, la disponibilità, pure, a soffrire per gli altri, a soffrire nel momento in cui viene assorbita la sofferenza degli altri. Il senso della vita è tutto qui: nell'apertura agli altri. Aggiungo un aneddoto personale: oggi, proprio oggi, una ragazza (gentilissima) mi ha proposto al telefono una formula di risparmio finalizzata alla vita dopo la pensione. Nella sua meravigliosa narrazione (mandata a memoria) mi ha descritto ultrasessantenne a bordo di una barca che galleggia sulle acque di qualche mare. Fanciulla - le ho detto - a parte che non ho un centesimo da risparmiare, ma chi te e me lo dice che io ai sessanta ci arrivo? Mi accontento di arrivare a domani. E non è nemmeno sicuro questo, siamo sinceri. E allora? La poverina, colpita in pieno da quest'onda che lei ha sicuramente percepito colma non di sale ma di pessimismo, ha iniziato a pensare. Ma non ci stava dietro, perché lei agli oltresessanta ci arriva garantito. Le ho detto: tranquilla, non firmo nulla, ma ti confesso una cosa: cerca di vivere anche la vita degli altri. Se ce la fai, hai voglia se arrivi ai sessanta! Cento ne vivi di anni, e oltre ancora. Anche se scendi prima. Su questo, la firma ce la metto. 

domenica 24 novembre 2013

Niente incenso. E niente dormicum.

© weast productions 2013

© weast productions 2013

Due immagini da una messa celebrata questa sera in una chiesa del Canton Ticino. Il religioso che normalmente officia ha ospitato un giovane padre che si è preso l'ora d'aria dalla Siria. È giunto qui da noi per qualche giorno e fra qualche giorno tornerà nella guerra. Sto sul vago. In italiano ha chiesto di pregare per il suo Paese e per chi ci vive (e muore), per i cristiani ma anche, una volta o forse due, per i musulmani, per tutti coloro che subiscono la violenza scatenata. Ad ascoltarlo c'erano ticinesi e siriani che vivono qui da anni. Non importa quanto uno possa essere convinto (o, appunto, non convinto del tutto) del senso di una tale richiesta e – in definitiva – della preghiera in generale: è una conclusione alla quale ciascuno deve giungere disperatamente solo. E quindi: silenzio. E tuttavia ho colto, ascoltando il padre e osservando la gente (i fedeli), la trasformazione del rito e/o del rituale in consapevolezza. La consapevolezza di ciascuno, fra i banchi, che sarebbe uscito da quella chiesa con qualcosa a cui pensare, questa sera, con un racconto da portarsi a casa e dentro la vita. Per qualche minuto, ora o addirittura giorno. Cristiani d'Oriente insieme a cristiani d'Occidente. Capita raramente. Così. Le parole del padre venuto dalla Siria, ponderate eppure gonfie di una non traducibile sofferenza, hanno portato il volume del dolore che lì si sta accumulando. Voglio dire questo: per una volta, in chiesa, sono stato testimone dell'innesco di una reazione (a catena) dentro ciascuna persona diventata, nell'eco delle parole che suggerivano immagini, un soggetto schierato. Schierato dalla parte degli altri, in questo caso di chi in Siria aspetta soltanto di finire a pezzi. Inutile dire – sapete come la penso – che sarebbe compito dell'informazione innescare questa energia. E invece no, l'informazione ci fa di Dormicum. Che è la stessa cosa dell'incenso. Che questa sera però in chiesa non c'era.  

venerdì 22 novembre 2013

Il senso del taccuino.

Domani, sabato 23 novembre, nel Senso del taccuino sulla Regione: "Mai stata una da pantofole". Qui di seguito il (solito) estratto:

Quelle sue conoscenti (alla lontana) che la mattina (ogni mattina) si alzano con il sorriso stampato sulla faccia. E infilano i piedi dentro pantofoloni con la forma di un puffo o di un orso o di un'enorme fragola. Lei no, mai stata così. Nemmeno oggi, a quarant'anni suonati. Lo dice tutto d'un fiato, mentre beve un caffè. Diversa. Già da ragazzina. Capitava che sua madre la guardasse vicino vicino, gli occhi appiccicati ai suoi, come a lei piaceva fare in estate con una bottiglia dentro la quale aveva infilato una lucertola o un grosso insetto appena catturati dopo una lunga battaglia. Stessa curiosità. Lo sguardo di sua madre celava però l'apprensione di un ricercatore che in laboratorio ha dato vita a un mostro. Che gli sta davanti vivo. Per fortuna, e perlomeno ancora, prigioniero di una bottiglia. Normale che lo scienziato sia sopraffatto dai sensi di colpa. Da qualche brivido. E, non da ultimo, dalla paura. Per la mamma, valeva la stessa successione di stati d'animo.

giovedì 21 novembre 2013

Libero di fare il matto.

Mohammad El Ghanam è stato trasferito questa mattina alla clinica psichiatrica ginevrina di Belle Idée. Ex colonnello dei servizi di sicurezza interni egiziani, rifugiato politico in Svizzera dal 2001, El Ghanam era in carcere a Champ Dollon da sei anni perché ritenuto pericoloso sulla base di una perizia psichiatrica realizzata in absentia del diretto interessato. Altre perizie mediche avevano successivamente e in anni recenti sottolineato la gravità dello stato di salute fisica del detenuto. Conclusioni mediche che non sono mai state ascoltate. È stata infine stata ascoltata la recentissima (vedi Blog) sentenza del Tribunale federale che chiedeva un trasferimento di El Ghanam in una struttura psichiatrica “aperta”, vale a dire non carceraria. Abbiamo sempre seguito questo caso e continueremo a farlo. Dal carcere, Mohammad El Ghanam aveva scritto: “è un vecchio trucco quello di far passare per matto qualcuno”. Da oggi è libero. Libero di continuare a essere considerato matto nella clinica psichiatrica di Belle Idée. Davvero una storia strana. To be continued

mercoledì 20 novembre 2013

Il dentifricio è una notizia.

Dove sei finito, vecchio rincoglionito che non sei altro? Lo sai che hai un blog da aggiornare, lo sai? Che un due parole al giorno, santiddio chiediamo troppo, chiedo troppo, chiedono trooooppoooo? Che due parole al giorno, ma scrivile, anche se stai strisciando verso posizioni nemiche sulla pancia e poi sulla schiena e successivamente in mezzo al fango e già che ci sei attraverso il filo spinato e sui cavalli di frisia e, per quanto te la tiri, dentro i cunicoli scavati dalle talpe con un pacco di diottrie furbamente aggirate. (Ma come fanno? Loro vedono!)

Ora te lo dico: strappa la spoletta a due o tre parole, non è che tu sia tenuto a fare altro, molto altro. E conta: uno, due, tre, quattro.... Se al cinque le hai ancora nella tastiera, quelle parole, la pagina (lo schermo: che è peggio) ti esploderà in faccia come un budino dimenticato sulla lavatrice ormai (e definitivamente) giunta alla centrifuga. O. Kristo. La mia fa 1400 rotazioni al minuto. La sto ancora pagando. Giuro che la pago. Tutta. Conto sempre ancora: attendo il numero oltre il quale non si può più andare. 

Si può dire che c'è in giro un odore di aria fritta? Non si può? Ritiro.

C'è in giro un odore di aria fritta da paura. Sorry, è il copia incolla sballato.

Ho avuto problemi alla batteria della macchina, a terra due volte di fila. E con il polpaccio destro facendo jogging. L'orologio automatico mi va avanti di un paio di minuti. Leggo dei titoli (sui giornali) che mi fanno venire una voglia irresistibile di essere analfabeta. Guardo i telegiornali e mi dico che non ce la raccontano giusta. Ci fanno. E di brutto. 

Ho visto una coppia uscire da un'agenzia specializzata in viaggi scontati: troppo felici. Dove casso andranno in vacanza? Viaggi scontati: come il fatto che siamo vivi. 

Una mia amica mi chiama da Beirut: c'è posto in Svizzera? Me lo chiede così, dopo una bomba. C'è gente che aspetta in Grecia per venire da queste parti, a vivere: questa gente aspetta un paio di carte false per le quali ha già fatto carte false. Sento un'aria che sa di “troppo tardi”.

C'è chi mi scrive storie. Se servo a questo, benvenuto mister.

Ci vuole un bel coraggio: per vivere. E per qualcuno. Rispondo al telefono anche nella notte: Hallooo? Hello! Sorry? Sono io! Tu? Io... Dove sei? Sotto le bombe. Silenzio. Dall'altra parte: grazie. Per cosa? Per stare zitto. Okay. Okay. Ciao. Ciao. Scusa?... Sì... Porti ancora i capelli lunghi? Ancora... Grande. Cosa hai detto? Lascia stare. Okay. Okay. Ciao. Ciao. Click.

Oggi ho visto una donna bellissima. Lei si è accorta che c'era un pirla che la stava guardando. Attaccati al tram, mi ha detto. In realtà, la stavo guardando perché camminava come se stessedadiodasola.

Ragazza, io ho da scrivere, io ho un blog. Un blog da tenere in piedi. Da tenere in vita.

C'è in giro un'aria... Sempre uguale. Di un piatto da paura.

Un omino con la dentiera che paga 4 tubetti di dentifricio alla cassa. L'ho visto e lo giuro. Per me, è una notizia.

venerdì 8 novembre 2013

Il senso del taccuino.

Domani, sabato, nel Senso del taccuino sulla Regione: "Le vite sospese attorno a noi". Qui di seguito il (solito) estratto:

Ci eravamo conosciuti ad Antiochia, Turchia, poco distante dal confine con la Siria. Lui faceva un metro e ottanta di altezza. E non vedeva più niente. Zero. Mohammad Assaf. Il soldato siriano disertore, che prima (della rivoluzione? della guerra?) faceva il preparatore e venditore di kebab. Disertore perché agli ordini di sparare sulla gente aveva risposto “io no”. Tutto qui. Poca roba, dentro la Siria. Che non è inferno, non è macello, non è male assoluto, non è nessuna metafora, nessuna citazione letteraria: è il mondo come gli esseri umani sanno trattarlo. Sanno trattarsi. Come lo trattano. E come si trattano. Mohammad era rimasto gravemente ferito nel bombardamento della sua casa a Mohassan, a due passi da Deir ez-Zor. Le ferite all'addome, gravi, le aveva operate il dottor Abdulmalik Al Fannad. Gli occhi, impossibile affrontarli nell'ospedale di Mohassan, che non è ospedale, è “atto di coraggio”. Per essere onesti (l'ho visto): è disperazione medica.  

© 2013 weast productions / Mohammad Assaf, il soldato disertore

giovedì 7 novembre 2013

Gli occhi di Mohammad.

© 2013 weast productions
Sabato che arriva aggiorno nel Senso del taccuino la storia di Mohammad, il disertore siriano rimasto ferito e accecato nel suo villaggio di Mohassan durante un bombardamento: ne avevo parlato nell'agosto 2012. Un gigante che si era rifiutato di sparare sui civili. L'ho ritrovato, in Germania.

Gli occhi di Mohammad saranno operati fra una settimana: quello destro (soltanto) potrebbe ridargli una qualche visione del mondo. Anche grazie all'aiuto di alcuni lettori dell'articolo di allora.

La cyclette di Arafat.

In seguito alla comunicazione dei risultati delle analisi degli esperti svizzeri sui vestiti e nei resti mortali dell'ex presidente palestinese Yasser Arafat e nove anni dopo la sua morte, propongo alcuni personali ricordi di quegli anni e anche di quei giorni. A cominciare da una giornata del 2002.

Capita che la vita ci offra immagini capaci di relativizzare tutti gli sforzi che compiamo per rovinarcela. La guerra è uno di questi sforzi. La cyclette di Arafat è una di queste immagini. Hai presente un lampo: ecco, succede così.

Vi prendo trenta secondi di lettura per spiegarmi, voglio evitare di essere strumentalizzato o attaccato (attaccato andrebbe ancora, strumentalizzato no) da chi sta con e chi sta contro: nella fattispecie con i palestinesi o contro di loro, con gli israeliani o contro di loro. Io sto con me stesso e ciò che segue non si occupa del succitato argomento (aiuto!).

Il sole si stava alzando sopra Gerusalemme. Saliva, senza nemmeno troppa fretta, dalle colline lontane dietro le quali c'è Amman e indirizzava la sua luce, come una torcia elettrica enorme tenuta in mano da un bambino ancora mezzo addormentato, sulla Valle del Giordano. Da lì rimbalzava e, con il fiato ancora un po' corto, conquistava Gersualemme. Osservavo dal mio appartamento, con la finestra aperta. Bevevo il primo caffè di una giornata che non avrei mai pensato si sarebbe conclusa come in realtà si è conclusa. Mezz'ora dopo ero a bordo della mia Ford Escort station wagon targata Ticino, diretto a Ramallah. Lì si consumava il solito disastro e soprattutto, eravamo nel 2002, si stringeva l'assedio dell'esercito israeliano attorno al quartier generale dell'Autorità Nazionale Palestinese, la Muqata'a. La stampa – io compreso – semplificando come sempre preferiva dire che l'assedio si stringeva attorno al Presidente Arafat. La semplificazione, per quanto evidente, aveva una sua ragione d'essere e sbagliata fino in fondo non era. Dentro c'era Arafat, non un signor Bianchi qualsiasi.

Okay, la faccio breve. Il giorno prima (nella notte, credo, vado a memoria) c'era stato un fuoco d'artificio militare israeliano sopra la Muqata'a. Un paio di razzi, normale amministrazione. Ma il vecchio edificio costruito dagli inglesi ne aveva risentito ulteriormente: uno scheletro con l'osteoporosi preso a calci. Parcheggio (ero con la mia coraggiosa assistente) e per come va il mondo a volte, riesco a entrare dentro il quartier generale. Non ero, però, ancora contento delle immagini che ero riuscito a girare. A volte riusciamo a farci invisibili, sarà capitato anche a voi. Ecco che allora, invisibile com'ero diventato, mi ritrovo all'interno dell'edificio. Salgo le scale ricoperte di detriti (il bombardamento), filmo gli squarci aperti nelle pareti e a un certo punto, in fondo a un corridoio, mi accorgo di una porta semichiusa. Semichiusa uguale: devo aprirla! E così ho fatto. Entro nella stanza e mi trovo davanti a un letto matrimoniale perfettamente preparato, ricoperto di polvere e resti di cemento. Il muro a sinistra della testiera è stato attraversato da qualcosa di esplosivo: sembra la bocca spalancata di un mostro senza denti. Vado di fretta, perché so che in quella stanza non dovrei starci. Giro allora lo sguardo sulla destra, e cosa vedo?

Davanti a una finestra (in realtà credo la sola nella stanza) vedo una cyclette. Immobile come un animale terrorizzato. O, forse ancora meglio, come un cimelio prigioniero dentro un museo. Hai voglia se la filmo. Metri di nastro magnetico dedico a questa bicicletta. “Hey, you!” Ohohoho... Una voce alle mie spalle mi sta dicendo che forse sono nel posto sbagliato. Mi giro e vedo una faccia nota (nota per chi la Muqata'a a quell'epoca la frequentava più di un bar), seria dapprima e poi rilassata, disponibile: “Questa è la stanza da letto del Raìs”. Oddio! E allora.... “Certo, questa è la bicicletta del Presidente Arafat”. Arafat sulla cyclette! Da non credere. Bombardata, come la sua camera da letto.

In tre secondi avevo concluso che senza dubbio Arafat in quella stanza non ci dormiva da parecchio tempo, per motivi di sicurezza. E di sicuro lo sapevano pure gli israeliani. La guerra serve anche a mandare dei messaggi. È un linguaggio, come un altro.
Eppure, quella immagine della cyclette in mezzo alla distruzione aveva aperto uno squarcio nella realtà che, ogni giorno, raccontavo insieme ai miei colleghi. Quella immagine, come un lampo, mi aveva fatto capire che la violenza, sui due fronti, si sarebbe potuta arrestare in una manciata di secondi. Se soltanto i suoi servi fedeli avessero visto la stessa bicicletta. Assurda, dentro quel disastro, nemmeno scalfitta dalle esplosioni.


Ecco: il senso dell'assurdo. Trovarlo, in guerra. Non possiamo chiedere ai morti di manifestarcelo. Loro, sono tragedia. La cyclette di Arafat, invece, è una storia diversa. Scendendo la scala dalla quale ero salito e uscendo di nuovo nell'ampio piazzale della Muqata'a mi dicevo che si possono compiere tanti sforzi nella vita: per restare sani, ad esempio con una cyclette. O per rovinarsela. Ad esempio con la guerra. “Se riuscissimo a raccontarne l'assurdità, oltre alla tragicità...” Stavo macinando questi pensieri mentre guidavo verso Gerusalemme. Mi aveva interrotto una notizia alla radio: il presidente Arafat si era fatto vedere in televisione per dimostrare al mondo che era ancora vivo. Nessuno di noi conosce gli anni che gli restano. Non lo sapeva nemmeno lui: erano due.