In seguito alla comunicazione dei
risultati delle analisi degli esperti svizzeri sui vestiti e nei resti mortali dell'ex
presidente palestinese Yasser Arafat e nove anni dopo la sua morte,
propongo alcuni personali ricordi di quegli anni e anche di quei giorni. A
cominciare da una giornata del 2002.
Capita che la vita ci offra immagini
capaci di relativizzare tutti gli sforzi che compiamo per
rovinarcela. La guerra è uno di questi sforzi. La cyclette di Arafat
è una di queste immagini. Hai presente un lampo: ecco, succede così.
Vi prendo trenta secondi di lettura per
spiegarmi, voglio evitare di essere strumentalizzato o attaccato
(attaccato andrebbe ancora, strumentalizzato no) da chi sta con e chi
sta contro: nella fattispecie con i palestinesi o contro di loro, con
gli israeliani o contro di loro. Io sto con me stesso e ciò che
segue non si occupa del succitato argomento (aiuto!).
Il sole si stava alzando sopra
Gerusalemme. Saliva, senza nemmeno troppa fretta, dalle colline
lontane dietro le quali c'è Amman e indirizzava la sua luce, come
una torcia elettrica enorme tenuta in mano da un bambino ancora mezzo
addormentato, sulla Valle del Giordano. Da lì rimbalzava e, con il
fiato ancora un po' corto, conquistava Gersualemme. Osservavo dal mio
appartamento, con la finestra aperta. Bevevo il primo caffè di una
giornata che non avrei mai pensato si sarebbe conclusa come in realtà
si è conclusa. Mezz'ora dopo ero a bordo della mia Ford Escort
station wagon targata Ticino, diretto a Ramallah. Lì si consumava il
solito disastro e soprattutto, eravamo nel 2002, si stringeva
l'assedio dell'esercito israeliano attorno al quartier generale
dell'Autorità Nazionale Palestinese, la Muqata'a. La stampa – io
compreso – semplificando come sempre preferiva dire che l'assedio
si stringeva attorno al Presidente Arafat. La semplificazione, per
quanto evidente, aveva una sua ragione d'essere e sbagliata fino in
fondo non era. Dentro c'era Arafat, non un signor Bianchi qualsiasi.
Okay, la faccio breve. Il giorno prima
(nella notte, credo, vado a memoria) c'era stato un fuoco d'artificio
militare israeliano sopra la Muqata'a. Un paio di razzi, normale
amministrazione. Ma il vecchio edificio costruito dagli inglesi ne
aveva risentito ulteriormente: uno scheletro con l'osteoporosi preso
a calci. Parcheggio (ero con la mia coraggiosa assistente) e per come
va il mondo a volte, riesco a entrare dentro il quartier generale.
Non ero, però, ancora contento delle immagini che ero riuscito a
girare. A volte riusciamo a farci invisibili, sarà capitato anche a
voi. Ecco che allora, invisibile com'ero diventato, mi ritrovo
all'interno dell'edificio. Salgo le scale ricoperte di detriti (il
bombardamento), filmo gli squarci aperti nelle pareti e a un certo
punto, in fondo a un corridoio, mi accorgo di una porta semichiusa.
Semichiusa uguale: devo aprirla! E così ho fatto. Entro nella stanza
e mi trovo davanti a un letto matrimoniale perfettamente preparato,
ricoperto di polvere e resti di cemento. Il muro a sinistra della
testiera è stato attraversato da qualcosa di esplosivo: sembra la
bocca spalancata di un mostro senza denti. Vado di fretta, perché so
che in quella stanza non dovrei starci. Giro allora lo sguardo sulla
destra, e cosa vedo?
Davanti a una finestra (in realtà
credo la sola nella stanza) vedo una cyclette. Immobile come un
animale terrorizzato. O, forse ancora meglio, come un cimelio
prigioniero dentro un museo. Hai voglia se la filmo. Metri di nastro
magnetico dedico a questa bicicletta. “Hey, you!” Ohohoho... Una
voce alle mie spalle mi sta dicendo che forse sono nel posto
sbagliato. Mi giro e vedo una faccia nota (nota per chi la Muqata'a a
quell'epoca la frequentava più di un bar), seria dapprima e poi
rilassata, disponibile: “Questa è la stanza da letto del Raìs”.
Oddio! E allora.... “Certo, questa è la bicicletta del Presidente
Arafat”. Arafat sulla cyclette! Da non credere. Bombardata, come
la sua camera da letto.
In tre secondi avevo concluso che senza
dubbio Arafat in quella stanza non ci dormiva da parecchio tempo, per
motivi di sicurezza. E di sicuro lo sapevano pure gli israeliani. La
guerra serve anche a mandare dei messaggi. È un linguaggio, come un
altro.
Eppure, quella immagine della cyclette
in mezzo alla distruzione aveva aperto uno squarcio nella realtà
che, ogni giorno, raccontavo insieme ai miei colleghi. Quella
immagine, come un lampo, mi aveva fatto capire che la violenza, sui
due fronti, si sarebbe potuta arrestare in una manciata di secondi.
Se soltanto i suoi servi fedeli avessero visto la stessa bicicletta.
Assurda, dentro quel disastro, nemmeno scalfitta dalle esplosioni.
Ecco: il senso dell'assurdo. Trovarlo,
in guerra. Non possiamo chiedere ai morti di manifestarcelo. Loro,
sono tragedia. La cyclette di Arafat, invece, è una storia diversa.
Scendendo la scala dalla quale ero salito e uscendo di nuovo
nell'ampio piazzale della Muqata'a mi dicevo che si possono compiere
tanti sforzi nella vita: per restare sani, ad esempio con una cyclette. O per
rovinarsela. Ad esempio con la guerra. “Se riuscissimo a
raccontarne l'assurdità, oltre alla tragicità...” Stavo macinando
questi pensieri mentre guidavo verso Gerusalemme. Mi aveva
interrotto una notizia alla radio: il presidente Arafat si era fatto vedere in televisione per dimostrare al mondo che era ancora vivo. Nessuno
di noi conosce gli anni che gli restano. Non lo sapeva nemmeno lui: erano
due.