Raccontare


SPAZIO ALLE STORIE CHE NON SONO STATE RACCONTATE ALTROVE. ALLE PERSONE INCONTRATE E RIMASTE SUL TACCUINO. OPPURE A QUEI PENSIERI CHE MI PASSANO PER LA TESTA VELOCI COME UNA PALLOTTOLA: SE NON LI FERMASSI, LI PERDEREI.

sabato 4 febbraio 2017

Lo so che è sabato.


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Lo so che è sabato. Ma: mi è venuta in mente una cosa, e dopo averne trovato un approfondimento leggendo l'ultimo numero della London Review of Books, la scrivo.

La forza delle immagini. La cosa è questa. Va di moda dire che siamo tutti ormai assuefatti alle immagini, insensibili, bombardati dalle immagini eccetera, siano esse fotografiche o in movimento. Non è la prima volta che ne parlo e non sarà l'ultima di cui approfitto per dire che sono palle.

Prendiamo la città siriana di Aleppo, la sua parte orientale, per essere precisi. Ha suscitato paragoni storici con Sarajevo, Dresda, Guernica in relazione alla sorte toccata alla popolazione civile. Ha spinto, addirittura, in parti diverse del mondo, persone a scendere per strada e a manifestare solidarietà.

Che cosa ha originato questa mobilitazione, e prima ancora questa emozione alla quale abbiamo tutti concesso spazio dentro la nostra vita? Le immagini. Le immagini che giungevano da Aleppo est. Nessuno, tuttavia, si è chiesto, si è mai chiesto: chi le realizzava, queste immagini? Ricordate il bambino sull'ambulanza e i volti sporchi di polvere delle persone estratte dalle macerie dopo i bombardamenti?

Non le ha realizzate alcun giornalista professionista, inviato da qualche testata, motivato dal desiderio (ce lo auguriamo tutti) di raccontare la verità. Le hanno realizzate persone sul posto, i cosiddetti media activists.

Non si tratta, qui, di mettere in dubbio la veridicità di queste scene o la buona fede di questi ragazzi. I bombardamenti ci sono stati (siriani e russi) e le vittime pure. È tuttavia indispensabile riflettere sul fatto che la stampa internazionale ha accettato di buon grado di pubblicare fotografie e di mostrare filmati realizzati da sconosciuti, non da giornalisti inviati, ma da persone che vivevano ad Aleppo est, ogni giorno a contatto con i guerriglieri, in particolare con quelli più estremisti e radicalizzati. I quali nelle immagini pubblicate e messe in onda dai media main stream (televisioni pubbliche, giornali blasonati eccetera) non figuravano mai. Perché? Perché chi scattava fotografie o filmava ad Aleppo lo poteva fare soltanto seguendo le direttive di chi comandava: i gruppi armati più influenti. La guerra funziona così. Ci fosse stato un giornalista sul posto avrebbe anche lui potuto scattare soltanto quelle stesse fotografie, e non altre, ma perlomeno avrebbe potuto (dovuto, essere chiamato a) spiegare in che situazione era costretto a lavorare e dichiarare che si trattava di fotografie scattate in condizioni controllate da terzi. Di nuovo: questo elemento (tuttavia importantissimo) non confuta il contenuto delle immagini (a volte potrebbe, ma come verificarlo?, non è sempre possibile), ma ne costituisce tuttavia un'appendice fondamentale, una sorta di irrinunciabile metafile accluso a ciascun fotogramma. In parole povere, è in gioco la trave maestra del giornalismo: l'indipendenza.

Nella pubblicazione e messa in onda di queste immagini, nessuna scritta in sovrimpressione e nessun avvertimento editoriale informava del fatto che la loro fonte era totalmente sconosciuta. La “stampa libera” ha operato una forma di sottile censura che definirei autoassolutoria.

Grazie a queste immagini, tuttavia, la gente è scesa in piazza e tutti abbiamo detto “basta” all'assedio di Aleppo. Le immagini hanno sempre una loro forza, anche quando accettiamo di non chiedere chi le ha realizzate. In realtà, dovremmo sempre chiederlo, e chiedere che ci venga detto. È il solo modo per trasformare il nostro sguardo sul mondo in un atto di indipendenza.

Passo indietro, fino al 2011: quando dalla Siria giungevano le immagini realizzate dai giovani che manifestavano, ancora senza armi, vi ricordate? La stampa, in quell'epoca, si era scatenata, dichiarando che queste immagini le mostrava, ma senza poterne garantire la veridicità. L'opinione pubblica mondiale, ormai stanca di arabi che chiedevano più libertà e un po' di democrazia, chiuse anche il secondo occhio e si addormentò.

Ne riaprì uno per Aleppo, dopo anni di guerra, nel 2016, grazie alle immagini che tutta la stampa metteva in circolo, senza confessare di non averle e di non poterle verificare, di non avere nessun giornalista, diciamo di fiducia, sul posto, senza confessare di sapere che queste immagini erano state scattate e filmate alla presenza di guerriglieri invisibili che controllavano tutto, ad Aleppo est. Servivano immagini e andavano bene quelle, soprattutto perché erano quasi gratis, quando non addirittura gratuite.

Ecco la forza delle immagini, verificate o meno che siano. Tiene svegli sempre, anche quando vengono proposte senza alcuna riserva, quasi fossero provviste (pur non essendolo) di una firma capace di fornire una risposta seria e documentata alla riflessione su chi le ha messe al mondo e in quali condizioni.

Lo ripeto: chiedere questa firma è un modo non soltanto di esercitare la propria indipendenza nei confronti della realtà e del racconto che ce ne viene dato, ma anche di rispettare le vittime.

A Mosul sta succedendo qualcosa che assomiglia ad Aleppo e, anzi, stando alle cifre disponibili e a quanto ho visto sul terreno, supera (o potrebbe superare) Aleppo in relazione alla popolazione civile colpita e in fuga. La particolarità, in questo caso, è che nessuno manda immagini da Mosul. Allo “Stato islamico” non interessa produrre una narrazione focalizzata sulla popolazione civile, se ne infischia, la colpisce sparando o con colpi di mortaio quando tenta la fuga. Al Governo iracheno e alle forze della coalizione (USA, UK) coinvolte sul terreno e in particolare, queste ultime, dall'aria con attacchi aerei non interessa produrre indicatori che forniscano un quadro preciso delle vittime, fra i soldati iracheni e fra i civili.

In assenza di immagini, nessuna redazione è disposta ad andarle a cercare, perché questo significherebbe mettere lo sguardo su una guerra che ha quale nemico un'entità militare e ideologica esecrabile, ma che come tutte le guerre causa vittime anche fra i civili. E quindi? E quindi fa sorgere domande. Dovrebbe, almeno.

Ci si accontenta di qualche sequenza di soldati iracheni coinvolti in combattimenti, più o meno realistici quando non addirittura preparati per l'occasione, in realtà insignificanti nell'assomigliarsi di tutte le azioni di carattere bellico, nella tautologia della guerra.

Se cominciassero a giungere immagini anche da Mosul, dovremmo scendere per strada di nuovo, e chiedere che la sua popolazione venga risparmiata. Da chi? Dallo “Stato islamico”, certo, ma anche dagli altri protagonisti coinvolti, quelli che stanno dalla parte buona. Perché la guerra è così. Non fa differenza, anche se (anche quando) si infila i guanti di velluto.

La forza delle immagini è misurabile in modo particolare quando di immagini non ne esistono. Zero immagini, zero problemi.

Faccia da reporter, invece, qualche immagine di civili in fuga da e dentro Mosul la pubblica. Tanto, è sabato. 

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