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Quattordici anni fa avevo preso un taxi
da Gerusalemme ed ero andato dritto fino a Ramallah. Senza posti di
blocco israeliani. Una meraviglia. Avevo bevuto una birra e fumato
una sigaretta. Qualche anno dopo (due anni, per essere preciso) ero
salito sulla mia macchina targata Ticino, a Gerusalemme (importata
via nave, vivevo lì), ed ero andato a Gaza. Ne ero pure uscito,
affrontando controlli israeliani che definirei da operetta. Easy.
Oggi? Non aggiungo altro. Nel 2005, quando i coloni israeliani se ne
erano (finalmente) andati da Gaza, il mio amico e autista (di Gaza)
Arafat mi aveva fatto una scenetta strepitosa, mimando e anticipando
l'abbigliamento che avrebbe scelto e l'andatura che avrebbe assunto
quando, parcheggiata la sua macchina, si sarebbe immesso nel corso
pedonale di Tel Aviv. Una pacchia. Ma: a Tel Aviv non c'era mai potuto andare, chiuso dentro Gaza. Non so se si può scrivere, ma lo
scrivo uguale: è andato tutto a farsi fottere. Gli israeliani,
leggendomi, direbbero: vedi, c'è stato un tempo in cui i palestinesi
erano liberi di spostarsi, anche in Israele... Corretto, ma non fino
in fondo. Nel 2000, quando non capivo ancora nulla di Medio Oriente,
avevo avuto la fortuna di incontrare Amira Hass, giornalista ebrea
israeliana che in quegli anni raccontava al suo popolo la vita dei
palestinesi, anche se non volevano sentirsela raccontare, non tutti
almeno. Non ne faccio un mito (come fa qualcuno), ma è una
giornalista intelligente.
Le avevo chiesto di aiutarmi a capire
perché volavano tutte quelle pietre: era iniziata la seconda
Intifada. Amira mi aveva spiegato un fatto solo: nei territori
palestinesi, che i famosi (famigerati) accordi di Oslo avevano
suddiviso in tre categorie (A, B, C), in una sorta cioè di gerarchia
di “restituzione ad libitum”, gli israeliani continuavano a
costruire insediamenti civili, insomma a portarci un sacco di gente.
Non soltanto questo mi aveva spiegato, Amira: mi aveva pure detto che i progetti per la realizzazione di questi insediamenti realizzati
nei territori ufficialmente destinati ai palestinesi risalivano al
governo di Yizak Rabin, il primo ministro israeliano assassinato da
un estremista ebreo nel 1995. Rabin aveva ricevuto il premio Nobel
per la pace l'anno prima. Era considerato, dalla stampa e
dalle cancellerie di tutto il mondo, una colomba. Di pace. Capito? Me
lo aveva spiegato una giornalista israeliana, non il demonio.
I palestinesi avevano un altro premio
Nobel ex aequo: Arafat. Un casinista. Una sera, a cena, aveva preso
una mela, l'aveva tagliata in quattro spicchi e me l'aveva passata,
allungando la mano già tremula dalla parte del tavolo dove stavo
io, cioè di fronte a lui. Quando hai poco più di trent'anni, fa un
certo effetto. Attorno ad Arafat ronzava la sua corte, mentre lui
raccontava del primo carro armato che aveva acquistato da giovane.
Una pacchia. Eppure tirava l'aria che tira a palazzo: un'aria che sa
di trame e complotti. I palestinesi – e la loro causa – sono
finiti anche sotto il rullo di questi intrighi, dentro questa
ragnatela. Gli israeliani non c'hanno pensato due volte a farsi
avanti e ad autoinvitarsi al banchetto. È il Medio Oriente, cari
lettori.
Sappiamo, credo tutti, quanto è
seguito. Attentatori sucidi, bombe, rappresaglie, invasioni. E un
muro. E poi: la Svizzera che lancia gli Accordi di Ginevra, con la
signora Calmy-Rey uguale (ma soltanto: prima) a Papa Francesco che
accoglie (cosa di poche settimane fa) il presidente israeliano Peres
e quello palestinese Abbas. Uno scambio di baaaaaci e miiiiicrobi.
Una photo opportunity. Altro? Zero. Uno spot pubblicitario gratuito,
per tutti. Eppure, ci hanno scritto chilometri di articoli sulla Pax
vaticana. Palle.
Se lo dico, sembro un presuntuoso. Però
lo dico: non fregava niente a nessuno. E prima di esprimere il
prossimo pensiero premetto ciò che obbligatoriamente va premesso: ho
molti amici israeliani. Davvero. Ora dico il mio pensiero: gli
israeliani (la politica, l'establishment) sono riusciti a fare
credere al mondo che non esiste più una causa palestinese, che
esiste soltanto una faida interna tra i palestinesi. C'è del vero.
Va aggiunto, però, che è stata innescata e coltivata dall'esterno,
dagli israeliani e non soltanto da loro, anche dall'Occidente (che
termine ridicolo e vuoto…) e dai paesi aaaarabi e musulmaaaani (vedi Turchia, Qatar...).
Quello che abbiamo davanti agli occhi
oggi va in questa direzione, ne sono convinto e lo scrivo: le bombe
che cadono su Gaza, cadono su chi? Sui soldati di Hamas? Ma se sono
sotto terra... Cadono sulla gente: donne, bambini, genitori, vecchi,
e sui giovani, sui ragazzi e sulle ragazze, sui profughi dieci volte
profughi e sui feriti nuovamente feriti e infine morti ammazzati. Cadono
sulle scuole. S.-u-l-l-e-s-c-u-o-l-e. Perché?
È una mia personalissima opinione,
vale zero: eppure, sono convinto che dietro questa offensiva militare
scatenata da Israele contro la Striscia si celi l'intenzione (il
disegno) di neutralizzare il significato della parola resistenza e
quindi azzerare il diritto dei palestinesi a vivere su un pezzo di
terra (quanto ne resta?) che essi possano definire loro. Sulla quale
mettere al mondo figli, sognare, progettare, comportarsi bene o male,
come gli abitanti di Israele si comportano, bene o male anche loro.
Lo scopo di questa operazione militare
isareliana è di allineare i palestinesi sull'asse della follia che
si sta scatenando in Siria e in Iraq attraverso attori consenzienti e
impazziti che avanzano, su fronti diversi, sotto la bandiera di un
radicalismo islamico che non nasce dal nulla: nasce dai suoi sponsor.
Uguale a un atleta, a un calciatore (quanto ci hanno rotto gli
sponsor durante il mondiale...), a un pilota di Formula 1, eccetera.
Meglio fronteggiare un nemico senza causa (una causa folle non è una
causa) che un popolo ispirato da una causa. Più morti innocenti fai,
più metti gli scampati con le spalle al muro. Non gli concedi
alternativa. Li costringi alla riduzione di sé. Alla rabbia, nel senso di
malattia. Tollwut, in tedesco, e fa più effetto. Ridotti a un'esistenza rabbiosa, disposta a seguire gli ordini di
non importa quale imbonitore. I palestinesi hanno una causa, e questa
dobbiamo difendere, salendo sulle barricate del pensiero. E dico bene
DEL PENSIERO. Provate a immaginare tutto questo pensando al vostro giardino e
al vostro vicino, distribuendo i ruoli, i torti e le ragioni, le occasioni mancate e quelle manipolate, quelle raccontate bene e quelle raccontate male dagli altri vicini. Funziona. Non so che ore siano da voi, ma nel mio
mondo è tardi. Buonanotte.
Dal bombardamento di notizie su Gaza, leggendo le tue testimonianze sono sempre più convinta della causa palestinese e lotterò almeno idealmente contro chi vuole farmi cambiare idea, sperando che ci sia una crescita nel rispetto come unica via per la pace! Grazie Gianluca.
RispondiEliminaCaro Gianluca, non penso sia solo una tua opinione.
RispondiElimina"eppure, sono convinto che dietro questa offensiva militare scatenata da Israele contro la Striscia si celi l'intenzione (il disegno) di neutralizzare il significato della parola resistenza e quindi azzerare il diritto dei palestinesi a vivere su un pezzo di terra (quanto ne resta?) che essi possano definire loro. Sulla quale mettere al mondo figli, sognare, progettare, comportarsi bene o male, come gli abitanti di Israele si comportano, bene o male anche loro."
Ma quanti morti ancora? E perché, se l'unica richiesta è quella di una vita dignitosa e libera...la terra già occupata non è abbastanza?
noi che solo leggiamo e vediamo immagini ci sembra di impazzire. Non immagino loro!