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A richiesta (ma controvoglia... esistono, insieme?) pubblico nella sua interezza il Senso del taccuino di oggi. Chi mi scrive dice di volere cogliere (respirare) la sospensione degli a capo. Le frasi spezzate e le parole che se ne stanno lì da sole come zitelle senza waiting list o, o, acrobati con i piedi pieni di ossa. Appunto. Aggiungo, soltanto, qui e come preambolo, che nella vita non si finisce mai di imparare, davvero. E che il senso dell'assurdo, arpionato a quello che vivi, si apre come un sipario nei momenti più inattesi. Due donne, ad esempio: presa l'una a decantare (e non importa in che lingua) le virtù del lardo di colonnata (apparentemente un antinfiammatorio prodotto da mamma natura o da sue perfettamente riuscite creature animali), l'altra nel dire che comunque un po' di colesterolo (a voler essere ottimisti fino in fondo, un po' di colesterolo soltanto, una goccia, va', di colesterolo...) il lardo di colonnata te lo causa. E la prima a concludere, meravigliosa nella ineluttabilità della vita che così dicendo riesce a isolare, che "se sono grassa, ma grassa bene, un motivo ci sarà." Non fosse stata pericolosamente e davvero piena di lardo, avrei concluso che era, come si dice, da mangiare. Ora il Taccuino.
Succede, viaggiando, di finire dentro ai libri che altri stanno leggendo. Succede in aereo, oppure standosene seduti al tavolino di un caffè. Non è educato, va bene, ma in realtà non serve nemmeno sbirciare le pagine per rubare qualche parola, una frase. Basta osservare i lettori, i loro volti: nasce così un nuovo racconto, nella nostra testa. E per chissà quale misterioso processo, finisce con il significare qualcosa per la nostra vita. Diventa parte della nostra esistenza. Come questo dialogo, fra un uomo e una donna, coraggiosi abbastanza per parlare di tutto. Probabilmente d'amore. Ma anche della morte.
LA TUA ESAUSTA INQUIETUDINE
Fatico a starti dietro. Voli, o quasi.
Io, maledizione, arranco.
Mi sento inutile e ti devo tutto.
Ho il fiato corto. Ti osservo...
Ti guardo, con il dentro.
Trovo, in te, lo specchio del mistero.
Emani silenzio. Il lavorio dei
pensieri.
Sei, nel modo più compiuto: fragile e
esposta.
Sei un'antenna, il polo dei miei
inquieti viaggi.
Posso...?
Taci, ora. E ancora. Ascolta
l'incerto fraseggio delle mie sillabe, poche.
Vivo al minimo.
Ho strappato qualche immagine al
sogno. Le sole credibili.
Giro e rigiro fra le dita
amuleti incandescenti.
Cerco, in ciò che ha già dato
tutto, l'augurale portafortuna.
Il fondo del senso,
in una sigaretta strafumata e
lacera.
Capisco, nell'attimo, l'infinita
complicazione.
Eppure, chiedo altro tempo.
Non si è mai abbastanza soli,
abbastanza per arrivare a capire
l'ironia.
Della sorte.
Che fai, ridi? Proprio ora?
Mi imbarazzi.
Gli anni ti escono dagli occhi come
cerchietti d'oro e d'avorio.
Ti piaceva metterli sotto i denti.
Sembra ieri.
E ancora oggi, questo suono è sé
medesimo.
Credo di capirlo: tu, nel tuo crederti
invincibile.
Posso...?
Testardo! Come il vento, sei.
Come il gelo che
immobilizza il faro: le parole si
perdono nell'inganno (o è un vezzo, solo
questo?).
Puntano, convinte fino in fondo, a
un altrove.
Non avranno mai più il senso
auspicato.
Ascolta: nemmeno urlano. Sussurrano.
Hanno abbassato la cresta. Sono
quasi e soltanto
suoni.
Portano se stesse, ed è già grande
fatica. Il resto -
il senso -
è nel riflesso notturno.
Ti nascondi? Dietro
le parole?
Tu hai paura. E non la guardi.
Nonmiguardi.
I tuoi occhi implorano la fantasia:
che gli dia un altro mondo.
Io sto nel mio. Ormai.
Tu, stai buono. Risparmiati.
Dentro quanti
viviamo? Uno, due, tre mondi?
Quanti ci
andrebbero a genio,
per essere felici?
E per sempre?
Sono una chiatta al
traino: senza motore, senza
traccia.
Scandaglio con le
dita la tua scia,
che si fa sottile.
Profonda, da
vertigine, ad ogni metro.
Mantengo un
ridicolo equilibrio: ho i piedi
di un vecchio
trapezzista,
pieni d'ossa e
senza muscoli.
Mi aiuto con le
mani, stringo l'aria.
Posso...?
Non ancora, non ancora!
E via, che uomo sei?
Un uomo devi essere, che sappia
stare al mondo.
Mostrami i segni -
e per davvero -
del terzo grado della vita,
i morsi di chi a pezzi ti vorrebbe.
Le lucenti e
trionfali
cicatrici. Che aspetti?
Guardami. Sono
nudo. E trasparente.
Chiedo che il tuo
sguardo mi trafigga. E faccia male.
Che lasci un altro
segno, l'ultimo, se vuoi.
Che mi costringa a
dire no, che non va,
che non si fa,
che non va bene.
E che non funziona,
cristo, non funziona.
Noncosì. Nonora.
Nonqui.
Cosa ti impedisce di farlo, di
dirlo, di urlarlo?
A chi, per la
miseria, a chi?
In faccia a chi,
eh?, hai un idea?
Avanti,
suggeriscimi qualcuno.
Dammi, se ti va,
un'altra dritta, delle tue.
Disegnami la faccia
di un cretino, da colpire,
le sembianze di un
nemico,
da annientare,
alludi, perlomeno,
al rombo di una folla,
da evitare,
al tuono di un
disastro,
a cui scampare,
a una guerra da
affrontare,
a una bomba da
disinnescare.
Una trappola, un
suo arteficie... Ci saranno, no?
Che fai, resti
muta?
Sorridi?
S-o-r-r-i-d-i?
Come fai?
Non avrai risposte, scordatelo, da
me!
Io sto dove sto e vedo ciò che
vedo. Ora.
Ad esempio: sto con te, come mai
sono stata.
E sto con me, come mai avrei
creduto.
Dicevi: “ti osservo”.
Lo fai davvero?
Guardami: le parole,
come fiammiferi,
finiranno col bruciarti.
Dimenticale.
Cerca altrove.
Cerca negli occhi.
Nei tuoi?
Ho paura di finirci
dentro, senza fondo.
Di vederti, per
davvero. E proprio adesso.
Lascia che mi giri
e mi rigiri
l'oro e l'avorio
attorno ai polsi.
Catena, o viatico
per il mistero.
Io sono un
perditempo.
Uno che di tempo ne
ha da vendere.
Per me, certo, ma a
che scopo?
Per te, per te,
tutto per te.
La mia scia ormai come una lama:
sottile e affilata.
Luccica al riflesso della notte,
ma non è il faro. E' ben altro.
Non ha un nome, non ha un luogo.
E non ha un senso altrove.
Ora, puoi...
Ora non serve piu':
mi hai sempre saputo.
E io so te, sempre
più forte.
Mentre apprendo,
senza impazienza, a
decifrare la tua
esausta
inquietudine.
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