Raccontare


SPAZIO ALLE STORIE CHE NON SONO STATE RACCONTATE ALTROVE. ALLE PERSONE INCONTRATE E RIMASTE SUL TACCUINO. OPPURE A QUEI PENSIERI CHE MI PASSANO PER LA TESTA VELOCI COME UNA PALLOTTOLA: SE NON LI FERMASSI, LI PERDEREI.

venerdì 26 maggio 2017

Il senso del taccuino.

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Domani nel Senso del taccuino sulla Regione: "L'appropriazione del vuoto". Qui di seguito il consueto estratto:

La scia di un aereo nel cielo che ancora non cede alla sera. Il sole altissimo la colora di un certo rosa. Due ragazze la osservano. Provano meraviglia. Persino nelle parole. Bastasse questo a farci passare tutto. Quello che viviamo e che ancora vivremo. Bastasse a cancellare la violenza, l'odio, i torti. Non fare il poeta, vieni al dunque. 

Nel 2007 incontrai Abu Omar nel campo profughi palestinese di Ein el-Hilweh, in Libano. Abu Omar era il nome di battaglia di un un uomo palestrato dalla pancia in su, magro e fragile, senza dubbio ridicolo, di certo sproporzionato, dalla pancia in giù. A 37 anni, di battaglie ne aveva combattute tante. Era stato in Iraq, chiamato dai vertici di Al Qaeda per la sua esperienza, accumulata durante la guerra civile in Libano. Decisi di incontrarlo per registrare la testimonianza di un guerrigliero straniero (lui era palestinese, apolide, in fondo, nato fra le fogne del campo profughi) dentro il disastro iracheno di quegli anni. Un teatro di guerra che attirava giovani musulmani decisi a imbracciare le armi (e a tagliare teste), in un Medio Oriente a pezzi. Chi non ci lasciava la pelle tornava a casa, come Abu Omar, alimentando il ciclo della violenza che, gonfiandosi, avrebbe un giorno colpito il resto della regione e poi l'Europa. Ieri ho riguardato le immagini. C'è una scena: Abu Omar per strada, con due mitragliette Uzi (di fabbricazione israeliana, per dire com'è la vita) infilate nella cintura dei pantaloni, una sul fianco sinistro, l'altra sul destro, nascoste dal giubbotto di jeans (lercio): un ragazzino lo nota e gli si avvicina. Abu Omar gli passa un braccio attorno alle spalle e lo bacia sulla testa. Il ragazzino reagisce come se fosse stato toccato da una divinità. Senza dubbio da un eroe. Si illumina. L'immagine suggerisce l'impressione che egli sia improvvisamente cresciuto, non fuori (fuori rimane un moccioso), ma dentro, gonfio di qualcosa che si è messo in circolo, nel sangue, nei neuroni del suo cervello infantile. Orgoglio e spavalderia. La constatazione di quanto sia facile impossessarsi del futuro prossimo di un essere umano ancora giovane e piegarlo a un proprio disegno, per quanto malvagio esso possa essere, non fa differenza. Al contrario. 

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