Raccontare


SPAZIO ALLE STORIE CHE NON SONO STATE RACCONTATE ALTROVE. ALLE PERSONE INCONTRATE E RIMASTE SUL TACCUINO. OPPURE A QUEI PENSIERI CHE MI PASSANO PER LA TESTA VELOCI COME UNA PALLOTTOLA: SE NON LI FERMASSI, LI PERDEREI.

sabato 18 febbraio 2017

"Resistenza" è un tatuaggio sulla pelle.

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Ho scritto che l'idea di lasciare Palestinesi e Israeliani alla loro sorte è l'ultima trappola posta dalla follia. In relazione alle dichiarazioni della Casa Bianca di qualche giorno fa. L'ho scritto oggi, 18 febbraio. In romancio come si dice “Casa bianca”? Chasa bianca? Blanca? Weissa? Dico romancio, con tutto il rispetto parlando: per definire la portata delle mie riflessioni. Arrivano, se arrivano, alla Svizzera. Quindi: das Weisse Haus, la Maison Blanche. E la Chasa bianca. Anche se, mi sia concesso aggiungerlo, fra le sorgenti del mio pubblico figurano, e con un rispettabile numero di click, gli Stati Uniti. Probabilmente è la CIA o la NSA. Questi click non contano, quindi. Sono stalking. Abituato anche a questo.

Esistono due tipi di giornalisti: quelli che stanno con il potere e quelli che stanno con la loro testata. Che, di nuovo, rappresenta un potere, economico e politico, ideologico, spesso anche un potere vacuo, un pozzo vuoto, per dirla tutta: zero. E poi esistono quelli che stanno con la loro testa. Spesso hanno un Blog. Io sto con il mio Blog, non vuol dire che ho una testa. Vai a chiedere un accredito stampa per il tuo Blog e ti accorgerai che ti prendono a calci. Quindi: un Blog non è una testata. È un Blog e basta. Non è ancora, tuttavia, una garanzia. È un Blog. Punto. Frutto del cervello al quale fa riferimento. Sempre meglio che zero. Da prendere per quello che è. Da discutere e criticare.

Vi invito gentilmente a compiere uno sforzo di memoria storica. Torniamo al dopo 11 settembre 2001. Trascuriamo di chiederci che cosa avrebbe detto e fatto il Presidente George W. Bush se non ci fossero stati gli attentati alle Torri gemelle e al Pentagono. Andiamo a riascoltare, invece, che cosa ha detto. Lavoriamo sui fatti. Non serve recarci in archivio, oppure sfogliare i giornali. C'è Youtube. Andiamo ad ascoltarci che cosa ha detto George W., e che cosa ha detto l'allora segretario di Stato Collin Powell (non andate a guardarvi le fotografie di Platon, lo edificano a posteriori), ascoltiamoci le palle senza fine sulle presunte armi chimiche irachene, con tanto di pseudofialetta agitata di fronte all'Assemblea dell'ONU. Ragazzi! E ascoltiamoci che cosa hanno detto Dick Cheney, Donald Rumsfeld (paura!), Tony Blair e nella seconda amministrazione Bush la signora Condoleeza Rice e tutti gli altri ancora. Vi concedo 15 minuti.

Trascorrono 15 minuti, lentamente.

Avete visto, ascoltato? Vi siete resi conto di che cosa ci siamo bevuti? Di che cosa abbiamo dato per vero, per oro colato? Di che cosa abbiamo accettato, stando zitti, proni, a cuccia, con il cervello spento? Che strano: anche la stampa, all'epoca, non emise un rantolo. Zitta. Zitta anche la stampa. E quindi zitti tutti. Anzi: la stampa a fare da sponsor al silenzio.

Andiamoci a rivedere le dirette dagli studi della CNN ecc., gli articoli dei grandi giornali: “War on terror” era la scritta che figurava ovunque, ogni giorno, ogni secondo. Guerra al terrorismo contro l'Afghanistan, guerra al terrorismo contro l'Iraq. Lo dico per esserci stato non so quante volte, in quei Paesi, poco tempo fa ancora, per averli raccontati mettendoci tutta la mia vita: li hanno distrutti, li hanno ridotti al sanguinamento, allo svenamento, alla morte per emorragia di cui siamo testimoni muti.

Nessuno, allora, aveva chiesto alcunché al Presidente George W. Bush e alla sua squadra. Andava bene tutto. Guerra. War. Qualcuno ha chiesto qualcosa al signor Obama? Nope.

Balzo a ritroso nel tempo.

16 ottobre 2002 (e giorni prima): ero a Bagdad. Seguivo le (ultime) elezioni (si fa per dire) presidenziali, Saddam Hussein c'era ancora. Non si parlava che di “armi di distruzione di massa”. Nel corso di una visita a un sito definito “sensibile” concessa dalle autorità irachene ai giornalisti stranieri, mi ricordo, come fosse questa mattina, un giornalista navigato del New York Times attaccare quei tre o quattro sfigati addetti iracheni messi davanti a dei computer spenti in un sotterraneo che, volendo essere pessimisti, nascondeva alla peggio lattine di Coca Cola e scatolette di caviale, ma non armi chimiche, biologiche o atomiche. Il giornalista americano quasi quasi prendeva a pugni il portavoce del governo iracheno perché alla domanda se in quel luogo fossero nascoste armi di distruzione di massa aveva risposto di no. Aveva detto la verità. In Iraq non c'erano armi di distruzione di massa. Oggi lo sappiamo. Eppure.... Eppure, signore e signori. Sapete come è andata, con la benedizione della stampa. Anche della stampa. Fa male dirlo, ma va detto.

L'Iraq è stato distrutto. Anche l'Afghanistan è a pezzi. Oggi abbiamo entrambi davanti agli occhi. È servito tutto questo a neutralizzare Al Qaeda? No. È servito invece a dare vita ai pezzenti senzacervelloecodardi dello “Stato islamico” (e ci starebbero cento Post, al proposito).

All'epoca, i giornalisti americani erano attaccati alla flebo del loro Governo. Anche i giornalisti europei. Vi ricordate il titolo (credo fosse del Corriere della Sera, o di Repubblica, sto invecchiando...): “Siamo tutti americani"? Lo avevano stampato il giorno dopo l'11 settembre. A ragione. A ragione? No, non a ragione. Lo avevano stampato quale epitaffio al giornalismo che fa domande e fa ricerche e va sul terreno per raccontare quello che vede e scopre, quello, pure, che riesce a prevedere.

Zero, da allora in poi. Un vuoto assoluto. A parte qualche rara eccezione. Zero giornalismo. Un estenuante asservimento, invece. Questo sì.

C'è francamente motivo di festeggiare il fatto che dopo una sorta di letargo perpetuatosi anche durante gli otto anni della Presidenza Obama (dov'era l'ex Presidente in Palestina, in Israele, in Siria, in Iraq, dov'era in Yemen, se non autocollato ai droni armati e sparanti, come fosse questo adesivo l'etichetta di un vino pregiato, dov'era in Pakistan, se non sulla stessa etichetta volante, eccetera?) c'è da festeggiare il fatto che i giornalisti siano tornati a fare domande. A dare fastidio. A rompere le palle. La democrazia è una rottura di palle, per chi sta al potere.

C'è motivo di festeggiare, certo, ma facendoci un po' tutti l'occhiolino, nella consapevolezza taciuta che di vergine sul serio, in questo invito a nozze, non è rimasto nessuno e nessuna, o quasi. Tutti rifatti, con plastiche non proprio a buon mercato, ottenute affidando al tempo trascorso (e alle cliniche della semantica) l'auspicio dell'oblio che avrebbe dovuto cancellare il peccato originale consumato.

Io non sto con il signor Trump: ha letto troppo poco per piacermi, del mondo ha visto troppo poco per convincermi, anche se ne ha fatte tante nella vita, ma queste tante non bastano a farmi cambiare idea, al contrario.

Non sto, però, nemmeno con i e con le neovergini della mia categoria professionale, la categoria dei giornalisti, che oggi strillano quasi dipendesse dal callo che minaccia le loro corde vocali la sopravvivenza della democrazia, non dico negli USA, ma nel mondo. Dov'erano, qualche anno fa? Dove erano?

Non sto, infine, con quelli che stanno con Trump. I libri di Storia insegnano tante cose. Andrebbero letti. C'è odore di olio di ricino e di manganello in giro per il mondo: negli Stati Uniti, in Europa e alle nostre latitudini, anche alle nostre latitudini. Resistenza è un tatuaggio che ci dovremmo fare tutti sulla pelle.

Io sto con quelli che pensano. Al limite sarei disposto a stare anche con i giornalisti neovergini, a condizione che non fingano oppure non strillino in giro che con Trump fa male quasi fosse la prima volta. Sarebbe una fake news. Questa per davvero. Fra le tante che girano. E che sono sempre girate nel mondo.

Il giornalismo è resistenza. Non alternata. Continua.

Benvenuti, a questo punto, ai click dall'America.



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