Raccontare


SPAZIO ALLE STORIE CHE NON SONO STATE RACCONTATE ALTROVE. ALLE PERSONE INCONTRATE E RIMASTE SUL TACCUINO. OPPURE A QUEI PENSIERI CHE MI PASSANO PER LA TESTA VELOCI COME UNA PALLOTTOLA: SE NON LI FERMASSI, LI PERDEREI.

sabato 5 settembre 2015

Incollati a una sedia.

Volevo non scrivere. Non di questo. Attendere e lasciare che tutto finisse dentro quello che sto preparando ma non per il Blog. Ora devo farlo. Scriverò, qui di seguito, di due argomenti: il primo è semantico, riguarda l'utilizzo delle parole e il significato che esse hanno sulla realtà e su di noi, sul nostro modo di registrarla. Il secondo riguarda il bambino siriano senza vita fotografato su una spiaggia turca.

Primo argomento. Accendo raramente la radio, a casa (quando sono in Ticino) o in macchina. Questa mattina l'ho accesa (in macchina). In un notiziario RSI (ma non sono i soli, i più blasonati tuttavia) si parlava degli esseri umani in fuga (la maggior parte) dalla guerra e fermi a Budapest, in Ungheria. La voce diceva (vado a memoria, ma ho una buona memoria) che si erano messi in cammino verso l'Austria dopo che altri “avevano preso d'assalto alcuni treni”. Prendere d'assalto: la scelta di questa espressione è terrificante e pericolosa, irresponsabile. Nessun essere umano sulla via dei Balcani ha mai “preso d'assalto” un treno, non in Macedonia, non in Ungheria, da nessuna parte. Nessuno ha mai imbracciato un'arma o un bastone o altro per farlo. Nessuno si è mai comportato, nemmeno in senso figurato, in questo modo. Tutti hanno cercato, disperatamente, e cercano, disperatamente, di trovare un posto, per primi, su un treno. Producendo scene di sconvolgente agitazione e anche di violenza umana: esseri spinti dall'istinto di sopravvivenza.

Utilizzare, riferita ai rifugiati in cammino, a chi cerca rifugio, l'espressione “prendere d'assalto” equivale a veicolare, al pubblico, una immagine minacciosa di questi esseri umani.

L'”informazione” sta manifestando il proprio fallimento nel raccontare questo storico flusso migratorio: non sa raccontarlo. Non sa trovare le parole giuste, corrette. Si aggrappa a formule fatte, precostituite. E pericolose: per l'effetto che producono, anche inconsapevolmente, su chi le ascolta. La fretta e l'ignoranza.

Utilizzare questa espressione riferita ai rifugiati è, anche, un modo per significare la “nostra” ostilità alla loro richiesta di accoglienza.

Secondo argomento. La fotografia del bambino siriano senza vita su una spiaggia turca. L'”informazione” non sa come comportarsi di fronte alle immagini. Ho spiegato, in un'intervista, cosa penso di quelle testate (nazionali e internazionali) che hanno scelto di pubblicarla accompagnandola con editoriali che chiedono scusa ai lettori per la decisione presa. Come se i lettori si aspettassero qualcosa di diverso, dai mezzi di informazione, che non la descrizione della realtà. Il racconto di come va il mondo.

Aggiungo, qui, un'ulteriore riflessione: la fotografia del bambino siriano fa (finalmente) emergere la crisi del “sistema informazione” occidentale. Che si è ormai addormentata, schiava dei contabili (che impongono tagli sul racconto del mondo) e di chi la realtà non sa vederla se non attraverso i luoghi comuni (per poi, attraverso questi stessi luoghi comuni, raccontarla al pubblico dei lettori, ascoltatori e spettatori). C'è un sacco di gente che non si schioda dalla sedia di una redazione e che si è messa a ragionare sul senso o meno della pubblicazione di questa immagine. La democrazia è di manica larga e di bocca buona.

Eppure, da reporter che ha trascorso un buon pezzo di vita sul terreno (pagando in tutti i sensi questa scelta individuale e dettata da nessuno se non da me stesso: la realtà ti corrode, ti consuma, dentro), scrivo che: il significato di questo mestiere è mostrare e raccontare il mondo. C'è chi fotografa attrici e calciatori su una spiaggia vippaiola, c'è chi dedica paginate e ore di diretta radio e TV a una partita di calcio, alle accelerazioni di un atleta dopato, alle sbandate inquinanti di un'automobile in corsa, e c'è chi fotografa i rifugiati in viaggio verso la speranza di una vita normale, come quella che viviamo noi, dalle nostre parti. Appartengo alla seconda categoria. A Ramallah, Gerusalemme, Gaza, Bagdad, Tikrit, Kabul, in Georgia, a Kiev, a Beirut, a Tiro, altrove e altrove e chissà dove ancora ho filmato e fotografato corpi senza vita: uomini, donne, bambini. Ho raccontato, nella mia vita, e ancora lo faccio, guerre e conflitti: il comportamento dell'essere umano. In ogni fotogramma filmato, in ogni scatto ho preso e prendo in consegna la vita delle persone ritratte, vive o morte: me ne faccio garante. Prometto a loro che mi batterò, fino all'ultimo, affinché la dignità della loro vita, di quella che continua sotto le bombe o di quella che una bomba ha spezzato o un pezzo di mare ha spezzato, diventi parte della vita degli individui che guarderanno queste immagini. Metto la mia vita e il prezzo che ho pagato quale garanzia del rispetto portato alle vite filmate e fotografate e raccontate.

C'è questa promessa, in ogni immagine che realizzo. Una promessa che, ogni volta che la pronunci, ti mangia un pezzo di vita. C'è un prezzo da pagare, quando scegli di fare il mestiere del reporter.

Ecco perché contesto, nel modo più fermo, le riflessioni – quelle più elaborate e quelle più sempliciotte – espresse sulla stampa internazionale, ma anche su quella locale, ticinese (che mi è capitato, essendo in Ticino, in questo momento, di leggere). C'è, nello sforzo argomentativo di chi sostiene che l'immagine del bambino siriano non andava pubblicata, un trucco malriuscito e malcelato: il trucco della censura accomodatrice.

Chi fa il reporter, dedicando a questa professione e al significato che ha tutta la propria esistenza, non censura: vuole che si mostri tutto. Per fare vedere e capire, a chi si trova lontano e ha altre cose da fare, un'altra vita alla quale badare, la vita (e la morte) degli altri. È questo il senso del giornalismo: del giornalismo vissuto sul terreno, non di quello che ha le chiappe inchiodate a una sedia.

Se, dalle testate locali, lasciamo che si dica che la realtà non va raccontata tutta, che il racconto della realtà ha dei limiti, accettiamo che l'informazione diventi uno strapotere libero di decidere su che cosa dire e che cosa tacere, su come raccontare il mondo oppure non raccontarlo. Oggi non lo si racconta più.

Mi auguro, nel modo più forte, che in Ticino si formi una generazione di reporter da terreno, di giovani che hanno voglia di sacrificare la propria vita per questo mestiere (molti mi scrivono, manifestando questo desiderio, ma io sono un solitario, uno che va in giro da solo, fatico a prendermi cura di loro, ci sarebbe, magari, qualcuno in grado di dare, a queste aspirazioni e a questi talenti, lo sbocco che meritano, il lavoro che meritano, ci sarebbe qualcuno di interessato?) Auguro a tutti di restare vivi, ma a tutti dico che c'è un prezzo. Il prezzo che paghiamo, sul terreno, con la nostra vita, con ciò che alla nostra vita succede, con i malanni che ci prendiamo, con la vita consumata che ci portiamo dietro è la dichiarazione di onestà che pronunciamo di fronte ai vivi e di fronte ai morti che fotografiamo e filmiamo e consegnamo a un taccuino. Anche di fronte ai rifugiati in cammino e a chi, invece, non ce l'ha fatta.

Nel mio viaggio dalla Grecia alla Svezia ho incontrato migliaia di persone e ho parlato con decine e decine di loro. Molte mi hanno chiesto perché le fotografassi e che cosa la mia immagine avrebbe cambiato nella loro esistenza. Ogni volta ho spento la videocamera o la macchina fotografica e mi sono messo a spiegare loro il senso del mio mestiere. E' a loro che dobbiamo una spiegazione. Non hai lettori o agli spettatori per avere scelto di pubblicare una fotografia che mostra la realtà. Che mostra che cosa succede agli esseri umani in fuga dalla guerra in questo medesimo istante. I lettori, il pubblico capiscono: commentano, partecipano, si esprimono. Non producono editoriali: frasi semplici, soltanto queste. Alle redazioni piacciono poco, le frasi semplici. Eppure bastano: testimoniano ai vivi in cammino e ai morti la consapevolezza e il senso della dignità che non hanno mai smarrito.

Questo e non un altro è il lavoro del reporter. Il resto sono chiappe incollate a una sedia.

Qui di seguito, uno scatto che ritrae Fatma, una bambina irachena di 7 anni nata con una grave malformazione del cervello a causa delle bombe alleate sganciate sulla sua città dall'inizio della “guerra di democratizzazione” nel 2003 (spiegazione fornita dalla famiglia). Ne ho già parlato, sul Blog e in alcuni articoli. Il giornalista e una sua collega, subito dopo questo scatto, si sono adoperati affinché Fatma e la sua famiglia potessero salire su un treno, a Gevgelija, in Macedonia, in modo umano. È successo, in modo più o meno umano, grazie anche all'aiuto di un interprete dell'ONU (UNHCR). Fatma non ha preso d'assalto un treno. E nessun altro, in verità. Volevano, tutti quanti, soltanto salirci. Erano in migliaia e il treno aveva due vagoni.

© 2015 weast productions



3 commenti:

  1. Che dire se non: ecco uno che finalmente sa descrivere, parola per parola tutto quanto è il mio sentire, il mio modo di vedere e pensare. Uno che del suo mestiere ne ha fatto una missione. Non lo conoscevo; ora per caso ho letto quanto pensa e scrive su una delle tante tragedie odierne e voglio seguirlo perchè mi fa vedere con semplicità e senza tanti giri di parole qual'è la realtà. Mi è piaciuta la frase del "trucco della censura accomodatrice". Lui mi fa comprendere la differenza tra pubblicare o meno la foto del bimbo curdo: non pubblicare la foto si ha l'idea nebulosa e lontana della tragedia e si pensa " sì, povera gente, ho sentito...quanti guai stanno passando, poi ritorno a pensare ai miei fatti più o meno impellenti. Pubblicarla : Oh, mio Dio, com'è possibile che accada questo?! Cosa posso fare per evitare che accada ancora e cosa devo fare per aiutare questi diseredati a trovare finalmente pace?! La mia coscienza mi impone di far qualcosa e mi fa comprendere quanto futili siano i miei fatti più o meno impellenti. Bravo il reporter; giusto pubblicare. Solo così si può smuovere la coscienza degli ipocriti che non vogliono vedere ma...caso mai, appena sentire in modo da essere in pace con se stessi. E dell'idea di questi ultimi non abbiamo che farcene.

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