Raccontare


SPAZIO ALLE STORIE CHE NON SONO STATE RACCONTATE ALTROVE. ALLE PERSONE INCONTRATE E RIMASTE SUL TACCUINO. OPPURE A QUEI PENSIERI CHE MI PASSANO PER LA TESTA VELOCI COME UNA PALLOTTOLA: SE NON LI FERMASSI, LI PERDEREI.

domenica 25 settembre 2016

Prima quelli di Aleppo.

(c) 2016 weast productions / ospedale improvvisato nella provincia di Deir ez-Zor (tutti i diritti riservati).

Se ce n'è mezzo. Mezzo essere umano. Se ce n'è mezzo che oggi trovi il tempo e la forza e la voglia di dire che le bombe su Aleppo si devono fermare. E lo faccia nella piena consapevolezza che, mentre lo dice, le bombe cadranno su altre città. E tuttavia lo dica, nonostante le altre bombe e le altre guerre. Si alzi, un mezzo politico o anche uno intero, se esiste, se esistono, si alzino oggi e nel commentare estasi o depressioni del dopovoto locale (sebbene io sia lontano, so che in Svizzera si è votato e che qualche risultato è scaturito) e abbia la forza e il coraggio di metterci dentro una frase, un inciso: "Fermate le bombe su Aleppo". Lo dico io, perdio. Lo dica anche lui, anche lei. Dillo tu, politico che "ci" rappresenti, oppure tu, politica che "ci" rappresenti. Che diventi pure, questa città, Aleppo, il simbolo di tutte le altre, martoriate e a pezzi, che lo diventi correndo il rischio del simbolo, che è un bel rischio, conoscendo, come conosciamo, la fragilità dei simboli. Eppure: che ne venga fuori uno, per quanto soddisfatto o invece a pezzi, uno fra tutti i politici, una fra tutte le donne politiche a riconoscere questa sera che la sola frase da dire è: "Prima quelli di Aleppo". Prima queste persone, che non sono venute a chiederci nulla. Che non ce l'hanno fatta o non hanno voluto. Che sono rimaste nella loro terra in frantumi. Nel sangue. Nel. Sangue.

Ho raccontato non so quante guerre e le racconto, ancora oggi, anche se non più su tutti i canali dove avevate la consuetudine di seguirmi. Mi aggrappo all'unico senso che il mio lavoro può ancora avere: quello di dire che cos'è la guerra. Che cosa significa essere in guerra. Che cosa significa, che cos'è essere sotto, sotto le bombe. Che cos'è quando cade una bomba. Com'è quando cade una bomba e tu sei lì. Come è? Ti cade sopra. E tu sei fra le macerie. Tu sei macerie. Carne a pezzi. Carne aperta. Calda.

Guardate le notizie di oggi, domenica. Guardate che cosa stanno facendo ad Aleppo. Chi pensa agli esseri umani che vivono in questa città? Chi li pensa? E, pensandoci, trasforma il suo pensiero in un atto di resistenza contro tutte le guerre in corso? Chi ci pensa? Rispondo io? Va bene. Ci pensano in molti. Più di quanti ci si possa immaginare. Tuttavia, le stanno soffocando, queste persone (e sono molte) che ci pensano. Stanno facendoci credere che importano altre cose. Che ci sono altre priorità. Ci sono sempre altre cose a cui pensare. Riusciamo a pensare soltanto a una cosa alla volta? Non credo.

La stampa? Dov'è la stampa? Al seguito è. Al seguito del vuoto. Del nulla. A cento all'ora al seguito. Persa, smarrita, incapace di un atto di resistenza, di un atto umano, indipendente, severo, credibile, ascoltabile, guardabile. Incapace di farsi rispettare. Incapace di non avere paura. Incapace di essere curiosa. E audace. Nonostante le maratone televisive serali per spiegare che non è vero, che la stampa c'è e che il mondo la riguarda. Sono tutte balle. Tutte quante. Ridicoli siparietti. Bugie infantili. Andava detto, una volta. E ridetto: bugie infantili. E siparietti. Possibile che non ci sia nessuno che abbia il coraggio (e il desiderio e, in fondo, la spregiudicatezza) di raccontare il mondo, per come va davvero? C'è, probabilmente. Ma è a cuccia. Strafatto di dormicum.

Siano, invece, fra i primi, e ancora più dei primi, gli abitanti di Aleppo. Che inizino, domani, lunedì, le lezioni di scuola, di tutte le "nostre" scuole, con una riflessione su Aleppo. Che inizino, domani, tutte le riunioni di redazione, di consiglio di amministrazione, di direzione e di che cosa so io, con una riflessione su Aleppo.

Non serve a nulla? E chi lo dice? Provateci. Il pensiero è consapevolezza. E la consapevolezza è un atto di resistenza. Resistenza nei confronti dell'idea che il mondo va così e continuerà ad andare così. Non è vero. Può cambiare, il mondo. Possiamo ancora cambiarlo, anche se ci troviamo costretti a concludere che non siamo serviti a nulla. Noi giornalisti, ad esempio. Io, ad esempio. Servito a nulla. Lo ammetto. Ma: il mondo può ancora cambiare.

Chiedo, a me stesso in primis e poi a tutti voi, a me stesso quale atto di rispetto da generare nei confronti dei morti e delle vittime di guerra che ho raccontato, e chiedo a voi quale atto di rispetto nei confronti di tutti i morti e delle vittime di cui avete sentito raccontare, che prima dei nostri vengano, per una volta, se non è chiedere troppo, quelli di Aleppo. Almeno oggi. E domani. E se tenete duro, anche dopo. Dopodomani.  

1 commento:

  1. E vero il mondo può cambiare, anzi no, potrebbe cambiare... però non succede...anzi peggio ancora, la storia non insegna, anzi no, noi non impariamo nulla dalla storia! e dunque tutto,tanto si ripete e il mondo va avanti così. E io credevo di poter contribuire a cambiare qualcosa...mi sono illusa.Ma non mi arrendo e mi indigno ogni giorno.

    RispondiElimina

Nota. Solo i membri di questo blog possono postare un commento.