Raccontare


SPAZIO ALLE STORIE CHE NON SONO STATE RACCONTATE ALTROVE. ALLE PERSONE INCONTRATE E RIMASTE SUL TACCUINO. OPPURE A QUEI PENSIERI CHE MI PASSANO PER LA TESTA VELOCI COME UNA PALLOTTOLA: SE NON LI FERMASSI, LI PERDEREI.

sabato 27 agosto 2011

Come un tosse profonda


Raffiche. Come se la città si piegasse scossa da una tosse profonda, devastante. L’eco degli spari fra gli edifici è il respiro che riprende. L’impatto delle pallottole uno schiocco cattivo. La giovane donna vestita di nero se ne sta ferma, diritta, all’angolo di una strada. Sopra di lei un cartello stradale indica il senso unico, sul muro accanto un graffito mostra un Gheddafi indiavolato. La guerra rende tutto significativo, anche quello a cui non si è mai prestato attenzione. Attorno alla donna c’è il vuoto : la vita è stata cancellata, portata via. Non si vede nessun altro per strada. La gente è chiusa in casa, isolata nel proprio terrore. Sui tetti sono nascosti i cecchini, cattivi e temibili, insetti neri rintanati in buchi colmi di sporcizia. Difficile, in queste condizioni, trovare il coraggio di uscire per sventolare una bandiera, fare il segno della vittoria. Lo fanno i ribelli, ma piu’ spesso li senti dire « Dio è grande ». Almeno questa è una certezza.

Tripoli è in mano ai ragazzini. Armati, spesso in tenuta mimetica, imbracciano distrattamente i loro fucili. A volte fanno partire qualche raffica, altre sparano su un movimento sospetto. Nei loro occhi c’è qualcosa di strano : la guerra ha messo troppa fretta alla loro crescita, gli ha consegnato nelle mani un’esperienza che nemmeno trent’anni di vita gli avrebbe portato. Nei loro occhi c’è l’assenza di paura, la paura superata, spezzata. E’ uno sguardo diverso, lo noti subito. C’è anche il senso della libertà assoluta che la guerra ti concede : niente polizia, niente legge, niente piu’ servizi segreti, niente piu’ Gheddafi. « Non ci permetteva di dire il nome dei giocatori di calcio piu’ famosi, dovevamo chiamarli per numero : il numero 7, il numero 2 . » Oggi fanno come gli pare. Incollati a una città prigioniera della violenza, ma liberi di fare quello che vogliono : di morire, di restare in vita, di rubare, di aiutare o di ignorare tutto.

Armi ovunque, nuove, scintillanti. Dove andranno a finire quando tutto sarà finito, quando la Libia debutterà sulla scena delle nazioni che conoscono la pace e la democrazia ? Scenari aperti, che pero’ molti definiscono un incubo di importazione occidentale. I libici, il ritornello è questo, andrano d’amore e d’accordo. Intanto pero’ Ala’a mi spiega che anche i ribelli non scherzano quando si tratta di interrogare qualcuno, un sospetto, un potenziale nemico. Lui ci è passato, senza colpa reale. « Sembrava di avere a che fare con gli sgherri di Gheddafi , gli stessi modi. »

Tripoli è in ginocchio. Ha il volto delle città che hanno conosciuto la violenza, scontri, combattimenti. Ricorda Bagdad. Vi avevo incontrato un chirurgo che, con gli occhi gonfi di rabbia e emozione appena trattenute, mi ha detto : « non ci sono bisturi, come devo operare, a mani nude ? » A Tripoli un giovane assistente di sala operatoria vaga nei corridoi di un ospeale in cerca di un anestetico per un parto cesareo. La siringa e vuota, il medicamento non si trova. Dentro una stanza ci sono almeno dodici cadaveri : nessun sistema di raffreddamento. Una scena indescrivibile, la morte che entra nel naso. Cadaveri anche nei giardini, sulle strade, sulle rotonde di Tripoli. Lasciati li’. Nessuno li raccoglie, non i compagni, non i nemici. Qualcuno ha i polsi legati, segno evidente che è stato ucciso dopo essere stato fatto prigioniero. I regolamenti di conti ci sono già stati. Crimini di guerra. C’è una commissione dell’ONU che sta già raccogliendo materiale per un’eventuale inchiesta. I morti, suggerisce qualcuno, hanno tempo. Non si muove la macchina umanitaria : a Tripoli è attesa una nave maltese che a bordo dovrebbe avere medici e medicamenti. Non è ancora arrivata. I feriti sono spesso ricoverati in condizioni disumane : manca il personale (quello straniero, numeroso in Libia) se ne è andato, scarseggia drammaticamente il materiale sanitario. Una guerra spazza via tutto.

La notte porta i brividi a Tripoli. Buia. Cieca. I ribelli hanno gli occhi spalancati alla ricerca di ombre. Movimenti furtivi, minacciosi. Interi quartieri sono al buio. C’è chi ne approfitta per andarci e uccidere. A casaccio. Spedizioni punitive di chi è rimasto fedele a Gheddafi o non vuole i ribelli. A volte le ombre vengono fermate ai posti di blocco, a volte sfuggono al filtro. E colpiscono. Raffiche isolate, raffiche prolungate. La notte spezzata dai tatatata delle mitraglie. La notte non trascorre mai a Tripoli. Le finestre dei palazzi non hanno luce. Dietro, intere famiglie attendono che faccia giorno, un altro giorno verso la normalità.

Per Mohammad, un avvocato di 60 anni, comincia invece una nuova vita. Ha conosciuto la Libia prima di Gheddafi e quella del colonnello. Ora è pronto a vivere d auomo libero. A « dire quello che penso, a criticare, a discutere, a battermi per le miei idee rispettando chi la pensa diversamente da me, ma aspettandomi lo stesso rispetto ». La paura che se ne andata, anche per lui, senza imbracciare il fucile ma grazie « allo sforzo e al sacrificio dei nostri giovani che ci hanno portato una nuova Libia ». La « nuova Libia » la trovi ovunque, scritta sui muri. Una promessa ripetuta centinaia di volte, scritta all’infinito. Su un muro c’è anche la scritta dedicata a una persona uccisa durante i combattimenti :  « non sei morto invano, non ti dimenticheremo ». La libertà ha un prezzo.

Un nuovo giorno rischiara Tripoli. Uguale al primo. La popolazione ascolta, guarda dalle finestre, cerca disperatamente i segnali di un miglioramento . Difficile scorgerli davvero, ma ci sono. Qualche sparo in meno, qualche battaglia in meno. Qualcuno, con la macchina, fa una corsa all’impazzata : per scaricare la tensione, per sentirsi vivo.

A Tripoli il governo provvisorio ha mandato il ministro della giustizia, dell’informazione e il portavoce del consiglio nazionale. Stanno in albergo, insieme ai giornalisti. Quasi fossero degli scudi umani. L’albergo è già finito sotto attacco, era prevedibile. Benghazi, la capitale provvisoria della rivoluzione, vuole mandare un segnale forte alla popolazione di Tripoli : non vi dimentichiamo, il paese avrà il suo centro politico nella vecchia capitale. In pochi ci scorgono un segnale davvero incoraggiante. Tutti vogliono una cosa soltanto, ora : sicurezza. La possibilità di uscire di casa, fare qualche acquisto e rientrare vivi. A Tripoli non è scontato. E’ anzi piu’ normale il contrario. Pubblicato su la regione,  27.8.2011 

2 commenti:

  1. Caro Gianluca,

    Le Sue cronache, le immagine che Lei o i Suoi colleghi ci mandano dalla Libia, il Suo racconto, riportano alla ribalta orrori, atrocità e esazioni già viste tante volte, troppe volte, in altri luoghi, in altri momenti. Rimango sempre sconvolta, come se le vedessi per la prima volta. Tanto meglio: se fossi sprofondata nell’indifferenza, avrei perso la mia umanità come la perde chi le comette.
    La guerra spazza via tutto, già. La così detta vernice della civilizzazione, ogni senso del valore della vita, non solo per chi viene ucciso, ma anche per chi uccide, ogni senso di limite, di interdetto, di sacralità, di pietà, in un’ubriachezza folle ed omicida.
    Penso ai gagazzi che Lei descrive, ai segni che lascieranno queste esperienze, giovani in cui mani si trova il futuro della nuova Libia. Su che basi la costruiranno ?
    Riportare la sicurezza è indispensabile, ma altre tanto urgente fermare il ciclo infernale delle vendette e delle rappresaglie, per non scivolare nella trappola di agire come gli aguzzini di Gheddafi.
    Situazioni inevitabili diranno certi. Forse. Ma l’esempio della Tunisia e dell’Egitto ci mostra che le cose possono andare diversamente. Un lumino a quale aggrapparsi per non disperare completamente dell’umanità.

    Non mi abbandona il pensiero di quello che Lei vive in prima persona.

    Donatella

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  2. Caro Gianluca,

    Il Suo reportage di mercoledì sera sul gruppo di rap a Tripoli mi ha fatto ritrovare un pò di leggerezza ed un sorriso, senza togliere niente alla profondità dell’argonmento. L’ho preso comme una sorta di risposta alla mia forse troppo amara reazione precedente. Così Lei mi ha giustamente ricordato quanto siamo fatti di opposti e di contradizioni, quanto, come Lei stesso l’ha detto, vita e morte vanno a braccetto.
    Interessante anche paragonare le Sue tematiche con quelle dei Suoi collegui della TSR.
    Lo ringrazio per le Sue scelte.

    Donatella

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