Raccontare


SPAZIO ALLE STORIE CHE NON SONO STATE RACCONTATE ALTROVE. ALLE PERSONE INCONTRATE E RIMASTE SUL TACCUINO. OPPURE A QUEI PENSIERI CHE MI PASSANO PER LA TESTA VELOCI COME UNA PALLOTTOLA: SE NON LI FERMASSI, LI PERDEREI.

giovedì 27 gennaio 2011

Sognare a Gaza

A. è un mito. A. conosce a memoria la Striscia di Gaza. A. è un uomo con la speranza e i sogni distrutti dalle cannonate. Il giornalista svizzero Gianluca Grossi traccia il ritratto del suo taxista palestinese.



Il suo nome inizia con la “a” e quindi lo chiameremo così: A. Per discrezione. Quando me lo disse per la prima volta, pensai che il suo nome mi avrebbe portato fortuna. E così è stato, finora. A. è un mito, è il taxista più forte che esista nella Striscia di Gaza. Ha 30 anni ma, come tutti i palestinesi, ne dimostra molti di più.

A. è un’agenzia stampa, un analista, un consigliere, un PR, un segugio, una guardia del corpo. A. è un saggio. Ha la stoffa del professionista, di quello che non è lì per perdere tempo. Parla poco, il minimo indispensabile. E quando parla è soltanto in arabo, perché in inglese oltre one, two, three, very good… non va. E così, anche grazie a lui, ho imparato a masticare l’arabo.

Passavamo le serate, dopo il lavoro, a mangiare il pesce in un ristorante sulla spiaggia di Città di Gaza. Mi ha raccontato la storia della sua famiglia, di sua madre egiziana, mi ha spiegato il nome dei pesci, il modo di pescare dei vecchi che escono sulle piccole imbarcazioni, di sera, dopo il tramonto, barchette in fila come sorelline che si tengono per mano, spesso prese di mira dagli incrociatori israeliani.

Mi ha spiegato di quando, un’eternità fa, la Striscia comunicava con Israele, e lui sfrecciava, nel nord, vicino a Nethanya, a bordo del suo taxi, e si prendeva multe salatissime dai poliziotti israeliani.

Ma erano altri tempi e anche con i poliziotti israeliani si poteva discutere. Acqua passata. La Striscia, adesso, è chiusa. Una dannata prigione.


La speranza

Nel 2005, A. mi fece una scenetta memorabile. Gli israeliani se ne erano appena andati da Gaza: niente più colonie, niente più carri armati che ti sorprendono il mattino come una secchiata d’acqua gelida sulla faccia, niente più morte. Liberi.

La speranza era sulla bocca di tutti, nei sogni di tutti. La parola futuro riacquistava un sapore familiare, dopo che era stata dimenticata, perché di sapore non ne aveva più. E non aveva più nemmeno un senso. Quel giorno, A. aveva fermato la macchina, era sceso e mi aveva invitato a fare la stessa cosa.

Davanti a una distesa di rovine, resti di case a pezzi, si era messo gli occhiali da sole e aveva improvvisato la sua indimenticabile interpretazione di ciò che lui sarebbe diventato di lì a poco, ora che la libertà gli era stata restituita.

A. aveva infilato i pollici nella cintura, aveva divaricato leggermente le gambe, aveva piegato le ginocchia fino ad assumere una posa che mi aveva subito ricordato quella di un cow-boy sicuro di sé davanti all’entrata di un saloon, un fotogramma da film western.

Mi raccontava che lui, di lì a qualche settimana, se ne sarebbe andato in giro così, occhialoni scuri, jeans, un bel paio di stivali e un giaccone con una infinità di tasche. Avrebbe preso la sua macchina e si sarebbe fermato soltanto quando il serbatoio della benzina sarebbe stato vuoto. Libertà e voglia di farsi una vita diversa, di pensare alla propria esistenza come a qualcosa di modificabile, di interpretabile, di realizzabile.


Gianluca Grossi
Gianluca Grossi (Weast Production)

I sogni

A. mi spiegava che avrebbe acquistato un paio di automobili e ci avrebbe messo dentro altrettanti autisti alle sue dipendenze. Sarebbero arrivati degli uomini d’affari, degli investitori nella Striscia di Gaza ormai liberata dall’occupazione, e qualcuno avrebbe dovuto portarli in giro. Qualcuno che la Striscia la conosce a memoria e che mette a disposizione vetture pulite, moderne e climatizzate.

Lui, A., non avrebbe guidato ogni giorno. Dall’ufficio arredato con cura avrebbe coordinato gli spostamenti dei clienti con gli autisti sul terreno. Con i soldi che avrebbe inevitabilmente cominciato a fare avrebbe dato anche un tocco di eleganza all’arredamento di casa e, già che c’era, avrebbe costruito un nuovo piano sopra quello nel quale viveva con la moglie e i bambini. Li avrebbe mandati a scuola fino all’università, per imparare un bel mestiere e l’inglese, che a lui mancava.

I suoi figli avrebbero avuto la vita che lui non aveva mai avuto. Avrebbero studiato all’estero e viaggiato. Poi, una volta sposati, avrebbero potuto scegliere se restare a Gaza o andarsene. Lui, comunque, di lì non si sarebbe mosso: perché andarsene, adesso che la vita stava per diventare vivibile, adesso che anche Gaza stava per diventare un posto dove i sogni diventavano realtà?

A. si era fermato, su questa domanda. La scenetta era terminata. Con un sorriso si era tolto gli occhiali neri e mi aveva detto: “Vedrai!”.


La polvere

Sono passati cinque anni dalla scenetta di A. A Gaza ci sono tornato decine di volte. Ho rivisto A., ogni volta. Abbiamo lavorato insieme. Non gli ho mai chiesto che fine avessero fatto i suoi progetti, i suoi sogni. Non ce n’era bisogno, la risposta era nei suoi occhi, nel suo modo di parlare, nel suo atteggiamento.

Tutto in polvere: come le case che dal 2005 ad oggi sono state distrutte. Come i sogni degli altri abitanti di Gaza, appena accennati e subito finiti a pezzi. Come i corpi dei morti causati dalle bombe, tornati, anch’essi, ad essere polvere nei cimiteri della Striscia.

A. continua a guidare la sua macchina. Ne ha una soltanto. Di uomini d’affari e di investitori non se ne sono visti. La Striscia è chiusa, messa sotto chiave. Come una cella. Quando mi vede, A. sorride, un po’ storto. Sa che per qualche giorno avrà lavoro. E tutto il tempo per parlare, insieme a me, di quando a Gaza i suoi abitanti avevano osato immaginare, per un attimo soltanto, una vita diversa e dignitosa.


Fonte: (swissinfo.ch)

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