Raccontare


SPAZIO ALLE STORIE CHE NON SONO STATE RACCONTATE ALTROVE. ALLE PERSONE INCONTRATE E RIMASTE SUL TACCUINO. OPPURE A QUEI PENSIERI CHE MI PASSANO PER LA TESTA VELOCI COME UNA PALLOTTOLA: SE NON LI FERMASSI, LI PERDEREI.

venerdì 24 gennaio 2014

Il senso del taccuino.

Domani nel Senso del taccuino sulla Regione: "Narrazione photoshoppata". Qui di seguito il (solito) estratto:

Il mondo gira che è un piacere. Il ministro degli esteri siriano Walid Moallem, a Montreux, attacca gli insorti siriani definendoli (tutti quanti) “terroristi”. Ho perso il conto di quante volte abbia utilizzato questa parola nel suo discorso inaugurale. Se non fossi così pigro, andrei a riprendere un discorso dell'ex presidente americano George W. Bush (funzionerebbe anche Obama), uno qualsiasi, ne isolerei un minuto e lo paragonerei con un minuto di Moallem sul Lago Lemano. Vado a naso, ma credo che saremmo lì con la reiterazione di “terorristi”. Ho, invece, paragonato un intervento alla BBC della signora Bouthaina Shaaban, consigliere politico del presidente Bashar Al Assad, con una dichiarazione, presa a caso, di un portavoce del Primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu. La prima si scagliava contro l'opposizione siriana, il secondo contro Hamas e l'Iran. Fatta eccezione dei destinatari, le dichiarazioni sono uguali. Interscambiabili. Che cosa sta succedendo? Succede che il governo siriano ha capito come vanno le cose e si è impadronito della narrazione del mondo che in Occidente va per la maggiore.  

venerdì 10 gennaio 2014

Il senso del taccuino.

Domani, 11 gennaio, nel Senso del taccuino sulla Regione: La vita al terzo piano. Qui di seguito il (solito) estratto:


Al terzo piano ci sono i servizi segreti. Quelli della signora Antoinette. Si dice che non le sfugga nulla di quello che succede dentro e di quello che succede fuori il palazzo nel quale vive. Lo stabile è situato nel cuore di Ashrafieh, il “quartiere cristiano” di Beirut. Quando si affaccia al balcone, decorato da qualche sempreverde e solitamente occupato da uno stendino e dall'immancabile poltroncina che, con il passare degli anni, ha preso la forma del suo corpo, la signora Antoinette vede altri palazzi. Sporgendosi un po' (“ma sto attenta, ho la mia età”) riesce a scorgere le case dal tetto in tegole rosse che, un po' qui e un po' là, tutte insieme, danno al quartiere il suo carattere e il suo fascino. In realtà, la signora Antoinette sul balcone non ci va per godersi la vista: ci va per stendere i vestiti (“ci metto i capi più fini, la biancheria cara, il resto finisce nell'asciugatrice”) oppure – sostengono nel quartiere – per controllare che cosa succede attorno al palazzo. E siccome anche quando è intenta a stendere tiene occhi e orecchi apertissimi, è corretto dire, sostengono i vicini, che la signora Antoinette sul balcone ci va sempre e soltanto per farsi gli affari degli altri. La storia dei “servizi segreti” l'ha inventata il portinaio. La racconta con un sorriso che si allarga come un porta scorrevole, guardandolo ti sembra addirittura di percepire il rumore della meccanica. Il portinaio, che negli anni ha seguito gli appostamenti della signora Antoinette, non se li è tenuti per sé. A Beirut, un portinaio non è vincolato al segreto professionale. E così la storia dei servizi segreti ha fatto il giro degli inquilini. E siccome siamo in questa città, ben presto tutto il quartiere ne parlava. La sola a non saperne nulla era la diretta interessata. All'inizio. Oggi, la signora Antoinette qualcosa sospetta. Ma, come vedremo, preferisce stare al gioco, anzi alimentarlo.


sabato 28 dicembre 2013

Take care, buddy!

Quando senti di dovere chiamare al telefono il tuo amico et collega che sta lontano - non dico dove, e non dico dove sto io, in questo momento  - per chiedergli se sta bene, bene davvero, giura che stai bene…. Quando senti che la linea è disturbata. Quando senti che ha una voce storta. Quando senti che non te la racconta giusta. Nonostante ti dica che è tutto ok. Quando gli richiedi, hey, buddy, how are you? Tu, che hai un pacco di anni sulle spalle, hai invece ora l'impressione che lui stia in realtà fottutamente male. Soprattutto perché di anni insieme ne hai passati. Hai imparato a capire se quando tossisce lo fa perché ha i polmoni a terra o per dirti diiiio stai zitto, e tu, zitto, resti vivo. Oppure hai imparato a capire che se guarda storto lo fa o perché ha la congiuntivite o perché invece ti vuole evitare un casino pazzesco. Per solito, ha sempre voluto evitarti la seconda option. Amico, questa sera, da qui, da questa inutile specola alla quale mi aggrappo come uno scoiattolo fuori rotta, ti auguro che tu possa restare intero. Non finire a spezzi. Desidero, con tutto me stesso, evitarti la sorte del tritacarne. Per quanto possa valere questo trascurabile auspicio. Qualcuno lo legga, perlomeno. E ti pensi. An Tagen wie diesen (tu che parli anche il tedesco…) alcuni fiumi - uno almeno, quello che guardavi da ragazzo - hanno smesso di scorrere. Per un secondo. Per quanto bastava. Potrebbe, anche questa volta. Bastare. Il tempo - i quattro secondi, cosa vuoi che siano, metti cinque - di saltare dall'altra parte. Altra riva. Altro mondo. E si spera: altra vita. Take care, buddy.

martedì 24 dicembre 2013

Auguri, appesi a un palloncino sopra il mondo.

© 2013 weast productions
Auguri a tutti i lettori di Faccia da Reporter, inviati da una parte qualsiasi del mondo. Buone Feste. Buon Natale. Aguri a chi crede, a chi cerca di crederci, a chi crede di crederci. Auguri a chi non ci crede. Auguri a chi cerca un modo per crederci. Auguri a chi ci crede senza crederci per davvero o del tutto. Auguri a chi io non ci credo, che poi sotto sotto ci crede. Auguri a chi mancano pochi giorni all'anno nuovo, che sarà una storia diversa. Tanto la vita fa sempre quello che vuole lei. Auguri ai miei amici. Anche agli altri, auguri uguale. Auguri a tutte le facce da reporter, prigioniere dentro qualche scantinato in Siria, in America latina, in Africa, in India, in Egitto, in Libia, altrove. Auguri per farcela, per tenere duro. Perché senza di voi, vuoi mettere le notizie che figura ci fanno, quelle notizie altrimenti date con il culo incollato alle sedie e gli occhi allo schermo di un computer, tutti zitti, ma zitti di brutto su chi le ha battute queste notizie. Auguri a quelli che le pari opportunità sono la nostra priorità, quando basterebbe andare un po' in giro per il mondo per vedere quello che sanno fare le donne, per davvero, sul terreno, in guerra, quelle senza velo, quelle con il velo, quelle mezze coperte, che qui gli hanno votato contro perché siamo fatti così e avanti tutta.

Auguri al fotografo ragazzino di Aleppo, Molhem Barakat, spappolato a 17 anni da una bomba, lui che mandava foto al mondo da questa città dilaniata, lui che lavorava “on a freelance basis” per una graaaande agenzia stampa. Uguale a dire: se l'è cercata. 

Auguri ai due volti che guardano fuori dal furgoncino nell'immagine che riporto (scattata in Siria) e a cui appendo gli auguri del Blog, come a un palloncino riempito da polmoni fumati e stanchi. Sono ancora vivi? Dove sono vivi?

Auguri a chi produce e vende armi, affinché dopo Natale vi venga in mente, brutti bastardi, un prodotto diverso, cristo, visto che è morto anche Kalashnikov, e visto che moriamo tutti, un giorno o l'altro, meglio morire in santa pace, no?

Auguri a quelli che ci ascoltano, che ci leggono, che sanno tutto di noi, e invece non sanno un emerito kazzo, auguri a quelli che ci stanno dietro, a quelli che pedinano i battiti del nostro cuore e le reazioni del nostro cervello, auguri a quelli che lavorano per prevedere i nostri pensieri imprevedibili. Auguri a quelli che credono: nella libertà che il nostro sguardo sul mondo è capace di rivendicare. Uno sguardo libero che ci rende liberi di raccontare il mondo come ci pare. Di farlo a Natale, attorno alle tavole quasi pronte, e che non vedono l'ora di essere spazzate da aria nuova.

Ho ricevuto molti augri. Una fila di email con animazioni elaborate e complesse: un sacco di babbi natale, un sacco di fessi. Come se le nostre radici (cristiane, lo vogliamo dire?) fossero in Scandinavia, fra la neve, le renne, tutti quei pupazzi con il naso rosso di freddo e d'acquavite. Le nostre radici sono in Medio Oriente. Dentro il macello che si sta consumando, sotto i nostri occhi. Io non ho figli, ma se ne avessi, glielo spiegherei: che da lì veniamo, non dalla baita di babbo natale.


Ora mi calmo. Ecco, sono calmo. Auguri ai colleghi reporter rapiti, prigionieri, nascosti in qualche cella pestifera, partiti per mostrare il modo a chi invece se ne sta a casa (e va bene così, ha altro da fare, ugualmente importante). Lo ammetto: ho, a volte, un debole per il kitsch. E allora, tanto vale buttarsi: ascoltatevi QUESTA canzone, dedicata a una fotografa francese partita in missione e poi rapita (in realtà dedicata ai giornalisti francesi realmente rapiti e attualmente prigionieri). È una fiction affidata alle corde vocali di Patrick Bruel, ma ha parecchia zavorra che la tiene sulla terra. Sdolcinata, va bene, ma sempre meglio di Stille Nacht. Kicciosa, e va pure bene, ma intanto l'ha scritta, non me ne viene in mente un'altra, in una lingua diversa. I francesi sanno essere, quando vogliono, grandi. Dài, auguri ancora, un bacio. E ciao.  

venerdì 20 dicembre 2013

Il senso del taccuino.

Domani, nel Senso del taccuino, sulla Regione: "Due alla fermata del tram". Qui di seguito il (solito) estratto, con gli auguri di buone feste a tutti i lettori del Blog:

Aveva sparato il suo primo colpo a sedici anni. Il fucile, rinculando, aveva fatto meno storie della sua prima ragazza al primo bacio. Il proiettile aveva portato via mezza testa a un uomo di mezza età che vedeva ancora nel mirino. Gli erano bastati tre secondi per concludere che se non sparava lui, sparava l'altro. Non si sentiva né buono, né cattivo. Un po' fatto, questo sì, di qualcosa che gli avevano dato da succhiare, prima di andare in battaglia: prendilo che ti fa bene, diventi un uomo. Quando uccidi qualcuno scende il silenzio e tu hai l'impressione che il cervello se ne va per i fatti suoi, si fa un giro, là sopra, come un insetto metallico che vola lento e preciso, poi riscende e ti fa rapporto. Ti dice: è fatta. La prima volta è la più dura. Quelle che sono venute dopo non le ha mai contate. A sedici anni era troppo vecchio per essere considerato un bambino soldato, e troppo giovane per essere considerato un uomo. Un uomo vero. Quando gli era entrato, il proiettile aveva fatto slap. Una sberla, cosa vuoi che sia? Un minuto dopo, invece, lui chiedeva urlando di poterla fare finita, gli dessero una pistola, un'arma qualsiasi. Dicono che le ferite allo stomaco siano quasi tutte letali, sicuramente sono le più dolorose. Ne era uscito vivo. Il dolore gli rimbalzava ancora oggi nella testa, e cosa strana gli provocava una morsa implacabile lungo la nuca, una tenaglia rovente.

Mi viene da dirti.

Mi viene da dirti che è come ogni anno quasi
Natale.
Quasi perché anche quando sarà,
non sarà uguale.
E non è per le balle che raccontano,
per le finte che fanno
e rifanno.
E ci fanno.

Non è per le prediche
appese a messe vuote e senza senso e senza
umanità. Senza il 
dolore.
Tutta roba 
che ci aspetta, 
come ogni anno.
Non è per le buone intenzioni
manifestate come resti di santi.
Per le messe in scena.
Di cui sorridevamo tutti insieme,
per qualche secondo appena e
soltanto,
dedicandoci poi ad altro.
Agli altri, di cui tu mi chiedevi:
come vivono? Come
stanno?
Come vivono queipovericristi?
Come sopravvivono?
Quei cristi di poveri esseri di cui raccontavo
la vita. Nelle mie povere storie,
fra una pubblicità e l'altra.
Fra una faccia sorridente
e l'altra.
In mezzo, clandestina e sola:
la vita.

Tu
ascoltavi. L'ascoltavi. E
diventava tua.
La tua vita.
Pure. Tutta. Senza argini.
Assorbita.
La portavi dentro, e io capivo.
Ritornando a casa,
intero,
ogni volta.
Anche questa volta.
E quell'altra, ancora.
La luce nei tuoi occhi,
nel constatarlo.

Oggi dammi un attimo, qualche giorno ancora,
mi chiarirò le idee,
metterò a punto un pensiero,
mi verrà in mente una frase che tenga,
che abbia un senso.
Due parole che non siano
mai
state dette.
Per quanto sia difficile prometterlo.
E dirle.
Saprò farlo.
O forse no, nel rumore che c'è tutt'attorno.
Due parole che tu attendi.
Sapendo, da tempo, che le ho già dette.
A te.

Me ne hai lavato di sangue
dal naso. Cristo ti ricordi?
Da ragazzo.
E a mio fratello. 
La vita, vedi,
fa quello che vuole.
Io, uguale.
Come ora, ad ora tarda,
che ti scrivo. Perché sei.
Sei senza fine. 
A costo di prenderne
di botte. Dalla vita.
Per come è se ci metti dentro il naso.
Ancora e sempre. 
Ma tante da farmi il naso gonfio.
Gonfio anche dal ridere
per i povericristichesiamo
e non cambiamo mai.

Da fumarci sopra una sigaretta
come facevamo
sul balcone
quando tornavo a casa.
Un'ora buona a fumare.
Buona per una sigaretta.
Che poi una non era mai.
Due. Tre. O metti anche quattro. 
Tu che facevi fumo. Fumo e basta.
Mandalo giù, mamma,
quel cristo di un fumo.
E tu niente: punge!

Fumavi la tua sigaretta
che poi, non ancora spenta,
compiva nel vuoto
una miriade di piroette
lanciata,
come avesse una missione da compiere,
dalle tue mani che mandavano luce.
Dal balcone.
E poi un'altra ancora.
Insieme.
E ridere.
Ridere sul serio.
Insieme.




giovedì 19 dicembre 2013

Scatti bernesi.

Alcuni scatti, cortesia di Rémi Willemin, della presentazione dell'esposizione Yemen: la sfida raccolta e del progetto umanitario nel Paese, gestito dall'Ospedale La Carità, presso la DSC/DEZA di Berna, visitabile fino al 17 gennaio.