Raccontare


SPAZIO ALLE STORIE CHE NON SONO STATE RACCONTATE ALTROVE. ALLE PERSONE INCONTRATE E RIMASTE SUL TACCUINO. OPPURE A QUEI PENSIERI CHE MI PASSANO PER LA TESTA VELOCI COME UNA PALLOTTOLA: SE NON LI FERMASSI, LI PERDEREI.

lunedì 9 gennaio 2012

Faccio anch'io insider trading. E m'illumino di fango.

(c) 2012 weast / Mio padre: gli ho fatto guadagnare 1.95 franchi sul cambio.

Ho saputo da Twitter in tempo reale delle dimissioni di Philipp Hildebrand, presidente della Banca nazionale svizzera. Ero chino su carte fiscali, concentrato nella ricostruzione del destino che avevo riservato a ogni centesimo speso nel corso dei miei viaggi di lavoro nel 2010. Un dollaro all'autista, un dollaro all'informatore, un dollaro all'interprete. Giustificare tutto. Ce lo chiedono ogni giorno, le istituzioni, lo Stato. E va bene, a denti stretti, incazzati di brutto perché alla fine avanza ben poco da investire in idee e in produzioni indipendenti. Ma va bene. Pero' ti arrabbi quando qualcuno, vicinissimo a un personaggio che incarna il franco svizzero (lo stesso franco che tu devi giustificare nel dettaglio quando, dopo averlo guadagnato onestamente, lo spendi col contagocce, per fare il tuo fottutissimo lavoro o per farti i cavoli tuoi) o il personaggio stesso con consorte, con due click di mouse ne guadagna 100mila in un colpo solo. Sfruttando le informazioni confidenziali di cui il personaggio in questione ha il professionale privilegio, o magari soltanto sognandole,  o magari ancora cogliendole da un mormorio prodotto dal meritato sonno notturno del guerriero, o chissà, copiate il mattino davanti a un tè di lusso dalla lavagna in cucina su cui erano finite ore prima mentre il depositario veggente masticava un mezzo pollo freddo strappato al frigo dopo essere stato colto da comunissima (almeno questa) fame notturna. E quando questo qualcuno (questo personaggio) dice che non ne sapeva niente mentre i click passavano, avvolti dal feltro per non fare rumore, per non farsi notare,  sul suo conto personale ti metti a ridere. Non va bene, soprattutto coi tempi che corrono. E va ancora meno bene quando questi ragionamenti, come sta succedendo sulle TV svizzere, vengono definiti da alti rappresentanti della politica e del mondo della giustizia, "fango". Chi, nella nostra società, rivendica il diritto di chiedere conto a chi fa un lavoro importantissimo e guadagna una marea di soldi, una marea spropositata e moltiplicabile a suon di click, viene tacciato di untore. Denigrato. La stampa, quando svolge il suo ruolo, viene criticata, ridicolizzata, attaccata. Criminalizzata. Piace, ormai, soltanto una stampa in ginocchio. E ce n'è in giro troppa. Vogliamo dire che la insegnano questa stampa? Vogliamo dire che è materia curricolare? Vogliamo dire che questa stampa: la stampa che sta zitta è la stampa che si augurano i poteri forti, banche, economia e informazione stessa? Diciamolo.

Questa sera spiegavo a mio padre (che comunque l'aveva capita prima di me) la vicenda Hildebrand. Eravamo a cena. Un pezzo di formaggio di piccole dimensioni si trasforma sul tavolo in un pezzo di formaggio più grande: i franchi si fanno dollari. E poi il pezzo di formaggio grande diventa mezza pagnotta di pane (i dollari che ritornano franchi, ingigantiti). E la pagnotta di pane diventa una casa. Costruita sui soldi guadagnati con le migliori intenzioni, ci mancherebbe. E con la più totale trasparenza. Ci mancherebbe ancora. Capito?

Ho detto a mio padre che avrei preso la moneta con cui mi paga l'aperitivo, quando ci vediamo, togliendola dal portafogli come fosse d'oro, per portarla in banca. Sei franchi. Cambiati in dollari. E poi ricambiati in franchi. Per un totale finale di franchi 7.95. Guadagno complessivo sull'investimento valutario: 1.95 franchi. Non sono il direttore della Banca nazionale svizzera né tantomeno ho il cervello di sua moglie: ma coi cambi ci so fare anch'io.

domenica 8 gennaio 2012

Click divini


A Gaza vive una ragazza che fino a due anni fa se ne andava in giro in sella a una moto. Vestita da uomo. Lunghe scorrazzate meccaniche in sella a un bolide d'acciaio lungo la Striscia. L'avessero scoperta lo avrebbero detto a: 1. i suoi genitori; 2. i suoi vicini; 3. tutti gli abitanti della Striscia. Le conseguenze sarebbero state: 1. arrabbiatura cosmica dei suoi; 2. sgomento dei vicini; 3. ammirazione della gente, in particolare della popolazione femminile (la maggioranza nella Striscia). Questa ragazza ha smesso di andare in moto. E di travestirsi da uomo. Troppo rischioso: non a causa di Hamas (che riuscirebbe ancora a beffare), ma dei salafiti, aderenti a una dottrina dell'Islam intollerante e oscurantista, trapiantata a Gaza da chi aveva interesse a farlo. Un po' come da noi, anni fa, qualcuno ha pensato coltivare kiwi. Non sono arrivati da soli, per capirci. Bene. La ragazza, abbandonata la moto, ha deciso di continuare il suo lavoro (fa la fotografa) senza ricorrere a mentite spoglie. Porta avanti così la sua rivoluzione. Ho ancora nelle orecchie il rombo della motocicletta.

Oggi, a Gaza, sono cambiate parecchie cose. Ad esempio: alcuni amici che salutavano con un “marhaba” (salve, buongiorno) preferiscono, soprattutto negli uffici dei ministeri e dell'amministrazione pubblica, un piu' consono “as-salamu alaykum” (la pace sia sopra di te), un saluto decisamente e opportunamente connotato religiosamente nella Striscia gestita da Hamas. Svanito il rombo della ragazza centauro, ascoltando bene ho percepito nell'aria un suono timido, ma insistente. Click. Un suono assolutamente nuovo. Mi ha incuriosito al punto da spingermi a seguirlo.

Click. L'ho avvertito, nettamente, mentre stavo scattando una serie di fotografie nell'ospedale psichiatrico di Gaza. Una istituzione dentro la quale mi ero messo alle calcagna della follia, quella innata (se esiste) e quella indotta dalla guerra, generatrice di mostri e di incubi che non distinguono fra il giorno e la notte. Click. Esco dalla sezione dei matti tenuti come prigionieri dentro celle simili a spoglie stanze della tortura, matti ricoperti di tonnellate di ovatta prodotta dagli psicofarmaci, percorro un lungo corridoio che sa di urina e feci, mi allontano verso la zona dei matti meno matti, dei bambini e degli adolescenti che soffrono di turbe del comportamento, di autismo, di depressione e di molto altro ancora: hanno visto parenti morire, bombe esplodere, fosforo bianco bruciare tutto. Giungo nella stanza della terapia di gruppo. Click. Ecco l'origine di questo scatto metallico. Scopro che si tratta di un piccolo contatore simile a quello con cui sugli aerei il personale di bordo verifica che il numero di passeggeri corrisponda alil numero di biglietti emessi. Scopro, per farla breve, che si tratta in realtà di un conta-preghiere, un'invenzione recente. Se lo tiene al dito una giovane assistente sociale che mi guarda divertita, consapevole del motivo della mia curiosità. Click. Click. E click. Questo racconto è dedicato al piccolo aggeggio elettronico che, a mio modo di vedere la realtà nella Striscia, non è molto diverso, nella sfida simbolizzata, dalla motocicletta della ragazza fotografa.

Chiedo alla giovane assistente sociale se, di sera, terminata la giornata, invia le sue preghiere a Dio. Voglio dire, il numero di preghiere recitate. E se per farlo utilizza internet. Scoppia a ridere. “No, non è fatto per questo! Quella fra me e Dio è una relazione spirituale”. Click. Rania porta al dito l'anello tecnologico. Un elegante contatore con display digitale azionato da un pulsante lucido colore acciaio. Click. A Gaza sono i primi in circolazione. Rania e la sua amica e collega Samira sono anticipatrici di una tendenza: scommettono che presto di questi anelli ne gireranno molti. E che altre donne li porteranno. L'anello ha sostituito la subha, il rosario islamico. Una collanina, diffusissima, che sono soprattutto gli uomini a tenere in mano, a passarsi fra le dita. Le donne la tengono nella borsetta. Composta di 33 grani di vetro, plastica o legno, la subha è utilizzata per la preghiera del dhikr, il ricordo incessante di Dio, la ripetizione del suo nome, ogni giorno e in ogni istante del giorno, secondo tre formule: “Gloria a Dio”, “Dio è grande”, “Sia lodato Dio”. Con questo nuovissimo contatore fai un click per ogni lode pronunciata. Click, click, click. Sul display di Rania la somma raggiunta è di 460 e sono soltanto le undici di mattina. “Se oggi arrivi, poniamo, a 100, domani, azzerato il contatore, cercherai di migliorarti e così via”.

Rania, che ha 23 anni, e Samira, che ne ha 38, lavorano come assistenti sociali all'Ospedale psichiatrico di Gaza, si occupano soprattutto di bambini affetti da patologie mentali, causate dalla guerra, dalla violenza che regolarmente si abbatte su Gaza e che a Gaza quotidianamente si consuma. Un loro collega maschio ha portato con sé cinque contatori da un recente pellegrinaggio alla Mecca; il padre di Samira ne ha portati due. Tecnologia saudita al servizio della religione, del rapporto fra l'individuo e il divino. Da un paese che impedisce alle donne di guidare la macchina, di uscire sole, di mostrarsi pubblicamente se non avvolte in metri di stoffa nera, non ti aspetteresti la commercializzazione di un vezzo, di un gadget femminile. A colpire sono i colori: giallo, blu, azzurro, rosso. Questi contatori sono pensati per le donne, per consentire azzeccati accostamenti con l'hijab, il foulard che molto spesso costituisce l'unica nota di fantasia nell'abbigliamento femminile tradizionale, oppure con il nero calato addosso a donne guantate.

Samira non è d'accordo con la mia definizione di accessorio alla moda: “quando uso il contatore mi sento in relazione diretta con Dio, mi ricordo di Dio e chiedo perdono per i peccati”. Mi chiedo di quali peccati potrà mai macchiarsi una donna a Gaza. “Dio mi ricompenserà”, continua Samira. “Il suo regalo può arrivare durante o dopo la vita terrena.” Basta però guardare come lo tiene al dito, come lancia rapide occhiate al contatore, per capire che a Samira il rosario elettronico piace e che è soddisfatta dell'accostamento cromatico con il quale è uscita di casa questa mattina. “Lo metto sempre su un dito della mano sinistra – spiega Samira – rispetto al rosario è più semplice da usare, non ti tiene le mani occupate. Ti ricorda anche di lodare Dio, basta un semplice click ogni volta che lo hai pensato, che hai pronunciato il suo nome.” Click. “Il contatore elettronico è accettato anche sul lavoro – continua Samira -  è meno visibile della subbah tradizionale, del rosario, lo scambiano per un accessorio, un orologio, un anello”.  Click. “E' un rosario per i giovani, per la nostra generazione”, racconta ancora Rania. I maschi, i colleghi di Rania e Samira, osservano incuriositi dal colore del contatore e distratti dalla grazia con la quale le due donne lo hanno trasformato in una parte naturale delle loro mani. Che strano. Click. Curioso. Click. Un oggetto autorizzato dalla Mecca e dai massimi rappresentanti religiosi sauditi, custodi di una visione conservatrice (eufemismo) dell'Islam, produce un'attenzione estetica, un indugio di occhi maschili timidamente dissimulato. Un'attenzione che fonde curiosità e ammirazione. La constatazione di un abbinamento riuscito fra un contatore azzurro e un hijab dello stesso colore rivaluta il piacere della contemplazione terrena riservata a una donna, certo non a tutto il suo corpo (in questo caso il corpo non entra in questione), ma a una parte del suo corpo, questo certamente. Non ci sarebbe nulla di nuovo se non si trattasse della forma moderna di uno strumento che, per quanto meccanicamente, svolge il suo ruolo nella connessione spirituale fra l'individuo e Dio. Insomma, se non si trattasse di un rosario islamico elettronico. Unghie perfettamente curate che sbucano da abiti lunghi pensati per nascondere il corpo delle donne, volti splendidamente truccati incorniciati dal velo che nasconde i capelli, occhi vellutati dal rimmel quando il velo lascia scoperti soltanto quelli, scarpe alte scelte con cura che sbucano da svolazzanti vesti che arrivano alle caviglie (e oltre) costituiscono da tempo il modo con cui alcune donne (le piu' coraggiose) rivendicano (addirittura esasperandola nel particolare) la propria femminilità come elemento identitario, non esclusivo ma integrante della loro esistenza. Nuovo invece è il gioco, sottile, tutto levantino, che si innesca fra il significato religioso del contatore e la sua valenza estetica. La duplicità che si insinua nella funzione originariamente pensata. Il contatore, messo al dito di una donna che da come è vestita corrisponde appieno all'immagine che la società da lei si aspetta (e perché no, anche alle sue individuali convinzioni), si trasforma in anello colorato e come tale, rivendicando la sua funzione estetica, relativizza l'esclusività del significato religioso. Relativizza, non cancella. Il contatore è un rosario per le preghiere, ma è anche bello e, anzi, diventa bello quando indossato da una mano femminile. Nessuna valenza esclude l'altra. Ciascuna, invece, rivela l'esistenza dell'altra in sé. Del bello, del piacere (estetico) nel religioso, del religioso nel bello. Quanto ne sono consapevoli Rania e Samira? Del tutto, credo, nemmeno loro. Non potrebbero, non sarebbe accettato. E anzi non lo accetterebbero nemmeno loro. Samira ci tiene a spiegarmi che “la religione è la vita” e che lei vive “per esprimere la religione e per trasmettere agli altri i principi che questa religione” le ha insegnato. La stessa Samira aggiunge che usa il contatore – click – “quando è preoccupata o nervosa o per chiedere a Dio che le mandi un po' di denaro.” La preghiera, totalizzata nel computo elettronico quotidiano, cosi' simile alle preghiere di chi, a migliaia di chilometri da Gaza e dall'Islam, in sostanza chiede al divino le stesse cose. La sfida, costituita dall'anello-rosario, sta tutta nella suo valore estetico e, direi, mondano. Al dito di ragazze che comunque vestono in modo conforme ai canoni religioso-culturali di una società conservatrice, il contatore elettronico condensa il significato di una rivendicazione: l'espressione della propria femminilità affidata a un oggetto “religioso” non costituisce peccato. Così come non lo costituivano i chilometri macinati a cento all’ora dalla ragazza vestita da uomo in sella a una moto. Anche quelle corse a perdifiato erano, in fondo, una preghiera: lo erano nella richiesta di proteggerla da schianti e incidenti, affidata a un divino la cui dimensione non ho mai chiesto alla ragazza di specificare, ma comunque invocato. Sono convinto che si tratti di un segnale importante. Da registrare e da tenere presente. La rivoluzione – quella che porterà la vera democrazia nelle società arabe – passa (deve passare) attraverso le donne.


giovedì 5 gennaio 2012

Il mondo non lo racconti mai abbastanza.

Queste le fotografie che Weast Productions ha candidato al concorso Swiss Press Photo della Fondazione Reinhardt - Von Graffenried per il 2011. (c) Weast Productions, tutti i diritti riservati.


KENYA (profughi somali)





















Somalia











Rivoluzioni arabe












domenica 25 dicembre 2011

Weast: le foto dell'anno.

(c) weast 2011 / Dadaab (Kenya): le conseguenze della carestia in Somalia.

(c) weast 2011 / Città di Gaza: le conseguenze della guerra nella Striscia.
(c) weast 2011 / Cairo: Piazza Tahrier

(c) weast 2011 / Tunisi: appena uscito dalla Libia. Chiamami. 

sabato 24 dicembre 2011

Vite di giornalisti

L'articoletto riportato qui di seguito basta da solo a denunciare i crimini contro la libertà di stampa e di informazione. Ma non soltanto. Denuncia pure il silenzio scandaloso delle redazioni che accettano il sacrificio dei giornalisti di terreno che pagano con la loro vita o con le svolte del loro destino la chiamata al mestiere che attraversa le vene del loro corpo. Solo nutrimento è il racconto delle vite degli altri. Weast Productions e i suoi collaboratori esprimono in questa sede la piu' decisa protesta contro chi tratta i giornalisti come criminali e in tutti modi cerca di tappare loro la bocca e di accecarne gli occhi. Soltanto chi tace - anche fra i confratelli - acconsente.
(c) weast 2011
In data 24.11.2011

giovedì 22 dicembre 2011

Immagini e dissidenza.


(c) 2001 Giornale del Popolo, 20.12.2011



Versione italiana del mio intervento (in inglese...) alla serata organizzata dalla Camera di Commercio del Canton Ticino all'Hotel Parco Paradiso (Lugano-Paradiso) il 19.12.2011. 

E’ l’ora dei telegiornali. Le sette, le otto, le nove di sera. Come parlare del mondo ? Lo mostriamo com’è o lo trasformiamo in una cena da digerire rapidamente ? Senza le immagini che disturbano, disturbano davvero ?

Vogliamo un mondo digeribile ? Un mondo take-away ? Pago, prendo, consumo. Quanto voglio. E se non mi piace, lo butto.

Punto interrogativo. Enorme.

Alla ricerca di risposte. Questo, signore e signori, è il mio obiettivo questa sera.

Sono un reporter che racconta le guerre. Invio, nelle case della gente, racconti da zone investite dalla guerra e di persone imprigionate dentro la guerra.

Ma combatto anche la mia guerra personale.

Credo nella forza delle immagini. Nell’energia sovversiva delle immagini.

Ci siamo abituati alla frase che le immagini – alcune immagini – sono INSOSTENIBILI. E a causa di questo peso, che ne asserisce la loro improponibilità, decidiamo (decidiamo ?) di non mostrarle. Non sto parlando di immagini necessariamente brutali. Sto parlando – sto specialmente parlando – di dolore, ingiustizia, prepotenza, violenza, sopprusi, emarginazione sociale, economica. Anche questi contenuti, apparentemente, rendono le immagini insostenibili.

Chi prende questa decisione (la decisione di non mostrare queste immagini) ? Basandosi su quali paramteri ? Parametri personali, professionali – giornalistici -, morali, etici, sociali ?

Questa domanda è condannata a restare senza risposta. Nessuno sa o vuole dirci perché alcune immagini non vengono mostrate, perché vengono giudicate improponibili.

Insostenibili (improponibili) per chi prende la decisione di non  mostrarle o per chi queste immagini divrebbe poterle vedere ma non le vedrà mai ?

Il giudizio giornalistico, etico, morale non è altro che una maschera. Per coprire, direi piuttosto nascondere la verità.

Quale verità, chiedo io ?

La mia risposta è : l’energia straordinaria delle immagini, la forza rivoluzionaria e sovversiva delle immagini. Questa è la verità custodita dentro ogni immagine.

La verità è nelle immagini. In ogni singola immagine. La verità, signore e signori, non è un pezzo giornalistico di carattere argomentativo. La verità non è spiegazione. La verità è evidenza.

La verità è nell’assenza di parole. Cio’ che non sopportiamo, cio’ che non osiamo sopportare, portare, sostenere nel momento in cui decidiamo di non mostrare una immagine è l’energia di questa immagine.

Questa energia, se lasciata libera, puo’ cambiarci. Ci rende capaci di sentire gli altri, di sentire con gli altri. Crea il miracolo di una sottile, magica comunicazione fra noi, gli spettatori e osservatori, e l’immagine. Fra noi e il contenuto di una immagine.

Questa magia puo’ spingerci a rifiutare il mondo cosi’ com’è. L’energia rivoluzionaria delle immagini puo’ provocare una rivoluzione nel nostro modo di vedere e vivere il mondo. Puo’ trasformarci in rivoluzionari.

I centri di potere dell’informazione, che sono collegati con altri centri di potere, politico, economico eccetera, non hanno alcun interesse nella rivoluzione. La rivoluzione è fastidiosa, pericolosa. La rivoluzione minaccia lo status quo.

La rivoluzione minaccia l’idea che il mondo sia davvero come ce lo mostrano i telegiornali.

Il mondo non è cosi’.

Ho parlato di rivoluzione, signore e signori. Della rivoluzione dentro le immagini. Parliamo ora di rivoluzione, della rivoluzione in Egitto. Una fra le tante.

Abbiamo trascorso un anno ricco di avvenimenti. Siamo stati testimoni della primavera araba, dell’insurrezione araba. Questo straordinario movimento esploso in Africa del nord e giunto fino in medio Oriente è ancora davanti ai nostri occhi.

Sono stato in Libia, Egitto, Tunisia. Ho parlato con rifugiati siriani, li ho visti arrivare in Libano e in Turchia. Ho incontrato giovani attivisti siriani che cercavano disperatamente di fare uscire dal loro paese le immagini che avevano filmato. Per lasciarle libere di raccontare la verità.

Il Medio Oriente sta cambiando. Non sarà mai piu’ com’era prima.

La primavera araba riguarda la politica, la democrazia, non c’è dubbio. Eppure, per chi vi è parla, è equivalsa, sin dagli albori, alla scoperta del soggetto, dell’individuo. Questo è il mio punto di vista personale, l’angolo dal quale osservo gli eventi che stanno modificando il Medio Oriente.

Le popolazioni nei paesi arabi stanno manifestando e combattendo per il loro valore di individui. La rivoluzione, o dovrei dire : le rivoluzioni, sono una espereineza straordinaria che ha condotto i cittadini alla scoperta del loro valore individuale di soggetti.

La rivoluzione è una esperienza collettiva, è vissuta collettivamente.  Tuttavia all’interno di questa collettivitàogni persona ha la sua voce. Ogni persona è diventata un soggetto. Giovani, uomini, donne : tutti hanno fatto l’esperienza della propria rinascita. Sono rinati come individui, come soggetti che osano dire quello che pensano, cosa vogliono e soprattutto cosa non vogliono.  

Il nuovo cittadino del Medio Oriente è l’essere umano inteso come soggetto, come progetto di vita, come potenziale. Siamo ancora di fronte a un processo fragile : ci sono state elezioni stravinte dai movimenti islamici, c’è un esercito (in Egitto) che commette crimini,  c’è inquietudine e insicurezza (in Libia), ci sono scontri armati e morti ogni giorno in Siria, eccetera.

Tutto puo’ ancora cambiare. E la situazione puo’ senza dubbio peggiorare. E tuttavia non c’è ritorno da un risultato acquisito : dall’ «io sono».

Questo è il nuovo Medio Oriente : la gente ha scoperto il proprio valore, nascosto, soffocato per anni e anni, manipolato dai governi locali e dalle superpotenze mondiali.

La primavera o le primavere arabe hanno portato la gente da un’era del NON parlare a un’era nuova del PARLA FINO A CHE TI RIMANE VOCE.

Ci vorrà del tempo per sistemare le cose, per reinstaurare una sorta di ordine, che pero’ non va inteso come la supremazia dello stato poliziesco sull’ndividuo. La gente non lo accetterebbe piu’.

La primavera araba è un esempio per le democrazie occidentali. Dovremmo tutti e sempre richiamare i nostri governi alle loro responsabilità. Dovremmo sempre verificare che le nostre democrazie – le cosiddette democrazie modello – funzionino davvero come tali.

Dovremmo insegnare la primavera araba nelle scuole. Dovremmo portare, nei programmi scolastici, la storia mentre si sta facendo.

La primavera araba è stata (e lo è ancora) documentata in maniera preponderante da immagini registrate con i telefonini.

Questo fatto ci dice due cose. Primo: la scoperta del soggetto nel corso delle rivoluzioni arabe va di pari passo con la scoperta della soggettività. Vedo il mondo con i miei occhi e voglio mostrarlo a altre persone. Cosi’ come lo vedo io.

Secondo : le immagini possono davvero fare la rivoluzione. Le immagioni non soltanto mostrano o hanno mostrato la rivoluzione. L’hanno fatta, l’hanno fatta circolando nel mondo. Queste immagini sono state lasciate libere di esprimere la loro energia sovversiva. La loro energia rivoluzionaria.

Le abbiamo viste in modo particolare sul web. New media. La televisione arriva in ritardo. Troppo in ritardo. Forse irrimediabilmente troppo tardi.

I telegiornali della sera non hanno mostrato tutte le immagini della rivoluzione araba (cosi’ come non avevano mostrato in precedenza molte immagini di altri fatti relativi al Medio Oriente) : alcune di queste immagini erano state giudicate insostenibili, troppo forti.

Ora, credo che voi ormai sappiate come la penso : queste immagini non sono state mostrate perché erano troppo vere. Perchè il loro contenuto diceva la verità, mostrava la verità. E la verità, signore e signori, quando è raccontata con le immagini, è sembre fastidiosa.

Queste immagini rivelano che le popolazioni nei paesi arabi non sono masse incapaci di vivere in una democrazia moderna, come molti pensavano e ancora pensano.

Sono soggetti. Soggetti appena nati.

La vita, per loro, è difficile ma entusiasmante.

Un mio caro amico, che vive a Kabul, Afghanistan, fra Humwees americani che sfrecciano per le strade e organizzazioni umanitarie inefficenti, un giorno mi disse : « E’ molto dura vivere qui. Ma che cosa possiamo farci ? La vita è obbligatoria ».

Le primavere arabe ci mostrano che la vita puo’ essere anche straordinaria. A condizione che sia data la possibilità di viverla da protagonisti.

Vi ringrazio.

venerdì 2 dicembre 2011

La Somalia alla Statale di Milano

(c) 2011 weast



Ho avuto l'onore e il piacere di essere ospite all'Università Statale di Milano, questa sera, per parlare di guerra, profughi e Somalia e mostrare al pubblico fotografie che documentano il dramma dei profughi somali in fuga dalla guerra e dalla carestia. A posteriori, di nuovo grazie agli organizzatori - in particolare alla professoressa Cristiana Fiamingo - per lo spazio dedicato al racconto della vita chi nasce già dimenticato.