IL SENSO DEL TACCUINO
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Ho speso 48 franchi per una fotografia. Se il mio barbiere non mi avesse offerto il taglio e la regolata alla barba, affrontati prima e in funzione dello scatto, sarebbero stati di più. Tutto questo per partecipare alla lotteria dalla quale potrebbe uscire una green card americana assegnata al sottoscritto. Ammetto di essere preoccupato dopo le parole del Presidente Trump, che vorrebbe togliere dalla circolazione il gioco al lotto dei permessi di soggiorno regalati. L'ha detto un po' da rozzo, ma l'America è il suo Paese. Ha il diritto di dire e fare ciò che desidera, in particolare dopo avere appreso che l'attentatore di New York era giunto negli USA con uno di quei permessi (all'uzbeko l'avevano dato sulla base di che cosa, della sua faccia?). Io, però, non sono quello. Vorrei andare in America per diventare famoso. Anche l'attentatore è diventato famoso. Io voglio diventarlo in modo diverso, si capisce: voglio diventare uno scrittore famoso. In America sarebbe tutto un altro scrivere.
Sto per dire una cosa che sembrerà un enorme inchino (lo sembri pure), di certo andrà contro la versione ufficiale del mondo, diciamo la più diffusa. Non aveva tutti i torti il Presidente Trump quando ha scritto, a caldo, in uno dei suoi Tweet, che l'attentatore di New York è “un malato di mente”. Lo dico per avere incontrato numerosi familiari di attentatori e attentatrici (suicidi e suicidatisi, dopo avere portato con sé molte vite innocenti) e, a memoria, dopo averne incontrato almeno uno, sopravvissuto alle pallottole delle forze dell'ordine in Israele, anni fa. Un ragazzino. La mia conclusione è questa: nessuna delle persone autrici di stragi di massa di cui sono stato testimone presentava, nella ricostruzione fornita dai familiari oppure direttamente (il caso del ragazzino) un quadro mentale stabile. Non sono un medico per certificarlo (i medici, tuttavia, non hanno l'esclusiva della certificazione), ma questo ho capito: i mandanti degli attentati portati a segno avevano ogni volta saputo appropriarsi di una predisposizione, chiamiamola così, esistente. Ho conosciuto e intervistato anche qualcuno che teorizzava e giustificava gli attentati suicidi (in particolare palestinesi): le teorie e le giustificazioni valevano per i figli degli altri, mai per i loro.
Ho conosciuto e intervistato un pilota di caccia F-16, lasciamo stare di quale paese. Fosse stato un chirurgo, mi sarei fatto operare subito, anche senza necessità, per il piacere di finire sotto i suoi ferri e sotto i suoi occhi. Ero sicuro che mi sarei risvegliato in una condizione migliore di quella antecedente l'anestesia e l'(inutile) operazione. Era un essere umano perfetto: convinto di bombardare la zona XY (lasciamo stare dove) per una causa giusta e indiscutibile. Era anche innamorato della sua famiglia, composta di moglie e due figli. Dopo l'intervista, mi sono chiesto chi avevo avuto di fronte per trenta minuti. La mia conclusione è stata: una persona equilibrata e, con ogni probabilità, sana di mente. Tuttavia, quell'uomo era convinto che anche le bombe o i razzi partiti dal suo F-16 e finiti fuori bersaglio (per sua diretta ammissione), vale a dire finiti sui civili avessero, in realtà, centrato un obiettivo se non giustificato, almeno in qualche modo giustificabile.
Ecco come siamo messi noi esseri umani. Costa fatica concluderlo e scriverlo. Probabilmente costa anche qualche rischio. Siamo capaci di compiere atti terribili e terrificanti. L'attentatore e l'aviatore non realizzano la stessa azione. L'attentatore vuole uccidere vittime innocenti. L'aviatore vuole colpire il nemico combattente, ma torna a casa la sera e sorride alla famiglia anche quando la sua azione, partita da motivazioni diverse, ha prodotto (per errore) lo stesso risultato dell'azione dell'attentatore, colpendo dei civili: torna a casa convinto (ma quanto?, davvero, quanto?) di avere agito in virtù di una causa superiore, quindi trascendente (la ragion di stato, la sopravvivenza del proprio paese, le sorti della guerra ecc.).
Questi due esempi riassumono il mondo per com'è messo oggi e per come lo percepiamo: attraversato da guerre e attentati. Una loro possibile (e praticata) lettura tende a metterne in evidenza la relazione che, sintetizzando e semplificando, è questa: la violenza produce violenza. A questo livello di interpretazione vengono solitamente aggiunte considerazioni di carattere geostrategico, politico, storico, religioso eccetera. Il mio approccio è diverso: questi due esempi (insieme a molti altri) ci permettono di guardare dentro l'essere umano, quindi dentro di noi. È il motivo per il quale mi interessano.
Che cosa genera violenza? Che cosa ci rende capaci di produrla? Dove corre la linea che separa la malattia dalla perfezione? Il pilota che ho intervistato sarebbe forse per davvero potuto diventare un chirurgo. L'attentatore di New York avrebbe potuto salvare una vita, due vite, tre vite, invece che spezzarne otto. Sono finiti dentro qualcosa, una sorta di nebbia elettrica ed elettrizzante, prodotta non dagli alieni, ma da altri esseri umani, consapevoli, per intelligenza ed esperienza, di come sia facile piegare la nostra mente, farla propria. Come sia facile impossessarsi di noi e convincerci che ciò che facciamo sia la cosa giusta da fare.
L'orrore che proviamo di fronte alla violenza ci induce a chiudere gli occhi, anche soltanto per un istante.
È una forma di autoconservazione, di protezione. È istinto di sopravvivenza. Nell'istante in cui l'essere umano produce violenza, spezzando vite, nel modo più rozzo oppure più sofisticato, rivela qualcosa che riguarda tutti noi, rivela qualcosa che ci guarda. Per non essere visti e per non guardarci, chiudiamo gli occhi. Produciamo, ciò facendo, un'immagine.
Per raccontarla, questa immagine, mi piacerebbe andare in America. Qui non la so scrivere. Non come la scriverei laggiù. Ecco perché mi serve la green card.
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