IL SENSO DEL TACCUINO
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Saperlo quanti civili ci hanno rimesso la pelle nella “liberazione” di Raqqa, ottenuta con le bombe sganciate dagli aerei, più che dalle forze in campo. Queste ultime hanno fatto da contorno al piatto principale. Folclore locale per telecamere, macchine fotografiche e per una versione della realtà che se non è una fake news, le assomiglia parecchio. La città sotto il controllo dello Stato islamico non è stata riconquistata dai curdi e dai siriani. Raqqa l'hanno martellata gli aerei militari. Non esistono mille modi per vincere una guerra. E non ne esistono di nuovi. Sottrarre una città al nemico è un incubo per i generali: è un lavoro sporco, che provoca vittime estranee al conflitto. Se si accetta la guerra quale strumento risolutorio, queste vittime sono inevitabili. Quelle di Raqqa le ha viste qualcuno? Qualcuno le ha fatte vedere? Non mi pare. È un po' come se non fossero mai esistite. Anche il celamento dei suoi effetti e delle sue conseguenze è parte costitutiva della guerra, in particolare di quelle che tendiamo a percepire come giustificate o giustificabili. Basta saperlo. In questo modo evitiamo di credere che Raqqa l'abbia liberata il Santissimo.
La guerra non è roba per palati fini. Anche questo i generali lo sanno. In guerra succede di stringere un accordo con il nemico. A Raqqa ci starebbe anche la variante: un patto con il diavolo. Cos'hanno fatto i militari con quelli dell'Isis sopravvissuti ai bombardamenti? Hanno aperto per loro (e in alcuni casi per le loro famiglie) un bel corridoio. Li hanno invitati ad andarsene fuori dalle palle. Come lo chiamiamo, un corridoio siffatto? Umanitario? Questa soluzione ha evitato ulteriori bombe sulla città e ulteriore distruzione: intanto, però, al posto di essere in carcere o al cimitero, gli estremisti sfollati se ne stanno da qualche parte. Garantito che non hanno cambiato idea sul mondo.
La guerra è questa. È tutto questo.
Da pochi giorni sono tornati alla ribalta i soliti noti a commentare la recente sentenza del Tribunale penale internazionale dell'Aja per l'ex Jugoslavia: il generale Mladic dietro le sbarre a vita per il massacro di Srebrenica et alii. Ben gli sta. Non so come vi siate sentiti voi, care lettrici e cari lettori: io avuto l'impressione di assistere a un sacco di gente in costume da bagno impegnata in un'abluzione catartica collettiva. Per qualche giorno c'era nell'aria un percepibile senso di liberazione. Di alleggerimento. Quasi che la sentenza dell'Aja, aldilà della contingenza specifica e del singolo individuo giudicato per le sue azioni, ci avesse tolto il peso di tutte le altre guerre in circolazione. Passate e presenti.
Siamo fatti così: come un'automobile ibrida. Procediamo con due motori, alternativamente. Quando è inserito uno, applaudiamo la Corte che ha deliberato sui crimini di guerra e contro l'umanità nell'ex Jugoslavia. Quando è inserito l'altro, della guerra e dei suoi crimini (consumati altrove) ci dimentichiamo. Non registriamo. Non esistono. Oppure accampiamo scuse per dire che vorremmo tanto farci qualcosa, ma ce lo impediscono. L'essere umano è fatto di acqua e delle sciocchezze che dice.
Scusa, Grossi, tu critichi e critichi, ma intanto c'è qualcuno che sta facendo qualcosa. Non ti pare? Se qualcuno me lo dicesse, avrebbe tutte le ragioni per farlo. Ma non avrebbe ragione. Ah, no? E perché mai? Perché una guerra produce macelli. Questi e basta. Se vogliamo evitare i macelli, evitiamo la guerra. La soddisfazione espressa da più parti per la sentenza dell'Aja è un'altra fake news. È la balla alla quale ci votiamo per non pensare che anche una “guerra giustificata”, una guerra le cui finalità ci sentiamo di condividere produce macelli. Spesso variano le dimensioni, certo. Ma qual è il criterio applicabile a un macello? Davvero soltanto il numero dei morti? Non ne basterebbe uno, di morto?
Nel momento medesimo in cui ci viene spiegato perché dobbiamo provare soddisfazione (una comprensibile soddisfazione) per una sentenza che rivendica il primato dell'umanità sul disastro, sulla mostruosità, che cosa avviene? Avviene che, automaticamente, compiamo un passo indietro e ci allontaniamo dal baratro dentro al quale nessuno ha interesse che finisca il nostro sguardo. Se ci guardassimo, nel baratro, non saremmo in grado di provare la tanto auspicata soddisfazione per la vittoria del bene sul male. Il nostro sguardo si ritrarrebbe confuso, smarrito e noi cominceremmo a pensare. A pensare. Pensare è un atto di libertà. Quindi pericoloso, guardato da alcuni con sospetto. A cosa penseremmo? A tutto ciò che siamo capaci di fare, di spingere a fare, anche di non fare. Penseremmo a cosa ci rende capaci di fare una guerra. Penseremmo alla guerra. A chi va bene e a chi va meno bene. A chi ci guadagna, in guerra e con una guerra. E a chi ci perde. Penseremmo al fatto che continuiamo a pensarci, alla guerra, pur sapendo ciò che produce. Penseremmo che una guerra dovrebbe essere impensabile, ma che non è così.
Questa non è un'arringa in difesa del generale Mladic, o dei bombardamenti sulle città occupate. È un'arringa in difesa della nostra indipendenza e libertà di lettura del mondo. Che dovremmo essere nella condizione di esercitare soprattutto quando ci sentiamo dire che il bene ha finalmente trionfato sul male.
Sono convinto che le categorie giuridiche andrebbero integrate con delle categorie filosofiche. Soltanto la filosofia (non la giurisprudenza da sola) può affrontare la guerra con lo scopo di smascherare e (in modo auspicabile) evitare ciò che essa produce.
Ciascuna guerra ci mostra ciò di cui l'essere umano è capace. In questo senso, esiste un elemento conoscitivo fornito (ricavabile) dalla guerra. Una guerra dice qualcosa su di noi, sempre. Anche quando non la combattiamo oppure subiamo, ma sono gli altri a combatterla e a subirla. Siamo, cioè, capaci di tutto. La giurisprudenza che cosa fa? Sanziona questo “tutto” quando lo giudica “troppo”. È un'operazione di contenimento. Ma è anche un modo per dire che no, questo l'essere umano non lo può fare, non può volerlo fare, non può averlo fatto e tornarsene a casa come se non fosse mai accaduto. La giurisprudenza applicata alle sentenze dei tribunali speciali nati da questo o quell'altro conflitto (perché solo questo e quell'altro, e non tutti?) è, a posteriori, la reazione dell'essere umano confrontato con l'esperienza di ciò di cui è capace, ma deciso a non compierla fino in fondo, tale esperienza.
La filosofia va ben oltre. Osserva ciò di cui siamo capaci in guerra e conclude che ne sono capaci tutti, senza eccezione. Conclude che se accettiamo a posteriori l'applicazione di un'istanza giuridica a una guerra ormai consumata, il suo giudizio dovrà applicarsi a qualsiasi attore: dal fante di prima linea, al carrista, al cuoco, al cecchino, a chi ordina esecuzioni, a chi non fa prigionieri eccetera.
Ecco: l'approccio filosofico definisce la guerra un crimine. In questo modo qualsiasi guerra e qualsiasi individuo in essa coinvolto sarebbero senza eccezioni penalmente perseguibili. Curiosamente, un tentativo di mettere fuorilegge la guerra c'è stato. E ne parleremo in un futuro Taccuino. Un siffatto approccio alla guerra (dovremmo dire: alle guerre) metterebbe al riparo i pubblici ministeri e i giudici dal sospetto di essere ignoranti di altre guerre (contemporaneamente combattute) e di essere di parte relativamente alla dipendenza (consapevole o meno, credo sempre consapevole) da quei poteri di cui le guerre sono espressione. L'individuazione dei crimini di guerra diventerebbe così un'operazione superflua, essendo ormai per definizione la guerra un crimine. Basterebbe avere premuto sul grilletto di un fucile. Averlo imbracciato, un fucile. Basterebbe produrre, vendere e acquistare armi.
Il Tribunale penale internazionale dell'Aja è uno strumento ambiguo: un giorno finirà forse anch'esso sul banco degli imputati con l'accusa di complicità con la guerra. Istituzioni come la Corte penale sono subordinate all'idea che ci siano guerre accettabili e altre no, che ci sia un modo accettabile (e non perseguibile) di ammazzare un essere umano (anche un civile) e un altro che invece non è accettabile. Istituzioni come la Corte dell'Aja nascono dalla (scaltra) volontà di applicare giustizia in alcuni casi per non doverla applicare in altri oppure per evitare che qualcuno chieda spiegazioni relative ai casi di giustizia non applicata e mai fatta.
Conclusione: non c'è istituzione giuridica più ipocrita di questo tribunale. Creato per fare giustizia relativamente ai crimini compiuti in alcune guerre. E per ignorare tutte le altre. E tutti gli altri crimini compiuti in nome della guerra. Espressi dalla guerra. All'Aja va in scena, a ogni sentenza pronunciata, l'egocentrismo profumato di Azzaro e spinto all'eccesso di chi cammina sulla moquette. All'Aja esplode l'orgasmo giustizialista di chi non ha il coraggio di dire che la guerra è un crimine contro l'umanità. Che tutte le guerre lo sono. Anche quelle che facciamo noi. Facendo finta di non farle.
Cambierei opinione il giorno in cui vedessi, sul banco della Procura e difesi da essa, i superstiti di una famiglia decimata da un drone armato che ha scambiato una festa di matrimonio per una riunione di fottutissimi terroristi (ci andrei io a farli fuori). Cambierei opinione il giorno in cui Carla-la-sanguinaria-del-Ponte fosse infine costretta sotto i riflettori televisivi a rispondere alla domanda per una volta coraggiosa e per una volta giornalistica: “Che cos'è la guerra, signora?”.
Se da lunedì (non verranno a prendermi nel week-end, voglio sperare...) non scriverò più sul Blog, portatemi una baguette con dentro la lima. Proverò a evadere.
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