Un muro in fase di costruzione a Homs (credits vedi testo) |
La fotografia è stata lanciata su Twitter dall'utente Samsomhoms, che da settimane invia messaggi da Homs, città martoriata dalle bombe in Siria. La didascalia recita: il regime siriano continua a costruire il muro che separerà Inshaat da Baba Amr nella città di Homs. Quindi: separazione di un quartiere alawita da un quartiere sunnita. Come a sancire un'impossibilità: quella di non farsi la pelle a vicenda. La primavera siriana è stata trasformata in una guerra confessionale. I segnali li avevamo raccolti già agli inizi dei moti in Siria. E' inoltre curioso constatare come il modello israeliano abbia definitivamente fatto scuola in Medio Oriente: quando non vuoi vedere una realtà, alzi un muro e fai finta che dietro non ci sia niente. Dietro il muro, in Israele, ci sono i palestinesi dei territori, con i loro diritti, le loro rivendicazioni, le loro aspirazioni. Dietro i muri di Bagdad c'è lo scempio compiuto dagli americani, risultato di una campagna militare nutrita dall'ignoranza, ma anche da una strategia gelidamente architettata: ridurre una nazione in ginocchio, farla a pezzi come una bolletta che non vuoi pagare. Dietro i muri dell'Afghanistan non ci sono soltanto ambasciate da proteggere: c'è la dignità di un popolo intero, lasciato in ginocchio come l'Occidente lo aveva trovato nel 2001, dopo le bombe dei B52 americani e l'avanzata verso Kabul e oltre aperta dall'Alleanza del Nord. Dietro i muri in fieri della Siria c'è forse un disegno che è soltanto apparentemente opera del regime e che in realtà sarebbe - mi pare essere - (nelle sue ipotizzabili implicazioni transazionali) simbolo e manifestazione di un progressivo statu quo regionale: frantumare il Medio Oriente in una serie di isole confessionali, annacquare il panarabismo riacceso dalle rivoluzioni, neutralizzare il potenziale di riscossa umana e umanistica innescato dai moti di popolo (parlerò dei successi dei partiti religiosi in un post di prossima pubblicazione). Lo definisco neocolonialismo a distanza, o colonialismo di ritorno. Vale a dire interpretato virtualmente. Senza davvero esserci, senza davvero colonizzare. Basta la frantumazione. Bastano i muri. In Palestina come in Iraq, in Afghanistan come in Siria.
E, ahimè, come forse in Grecia prossimamente: http://video.corriere.it/muro-grecia-turchia/a31ccd9c-1caa-11e0-a4b5-00144f02aabc
RispondiEliminaCristina
Caro Gianluca,
RispondiEliminaApprezzo molto le Sue ultime analisi sul Medio Oriente. Sopratutto perché propongono la visione di qualcuno che possiede la conoscienza del terreno, della sua realtà, della sua gente. E questo mi appare essenziale. Se effettivamente ha la possibilità di approfondirle e svilupparle, Lo seguirò con attenzione ed interesse, per cercare di capire le evoluzioni della regione quanto (se è possibile) il teatro d’ombre che ci si gioca.
Avrei desiderato che l’intervista di Amos Oz fosse stata più lunga, per lasciarle il tempo di ampliare il suo pensiero, ma suppongo che ci siano sempre gli imperativi televisivi che lo impediscono. M’incuriosiscono anche il Suoi riferimenti ai scritti di Edward Said, una personalità che conosco di più nel ambito delle iniziative avviate con Daniel Barenboim. Spero di darmi tempo per scoprirli.
A presto per leggerLo.
Donatella