Delia, forse? |
Ecco la quarta puntata del nostro feuilleton di primavera. Pubblico mano a mano che l'autore misterioso (è stato soprannominato così dai lettori) mi manda i capitoli, che io controllo, sistemo un pochino e poi metto online. Lui sostiene che non ci sia nulla di biografico, io chiarisco che non c'è nulla di autobiografico. E' un racconto, un'invenzione. Commenti eccetera per cortesia sul blog e non su mail privata. Buona lettura.
Delia aveva lasciato l'appartamento di
L. con l'aria di una che al check-in ti passa davanti senza chiedere
permesso, ti frega la fila, imbarca dodici valigie, litiga con
l'impiegata della compagnia aerea, chiede di parlare con il
direttore, si fa passare l'assistente e giura che la storia finirà
davanti all'amministratore delegato, che-lei-conosce-bene. E tu sei
li' a darti dell'imbecille perché la tua mente comincia a chiedersi
quanto bene lo conoscerà, anche se tu non c'entri proprio. E invece
di incazzarti, ti chiedi se si sia rifatta il seno o se
quella generosa esposizione di rotondità possa davvero essere natura
viva. Ed è soltanto una volta a bordo, a undicimila metri d'altezza,
che ti togli la curiosità e ti prendi la rivincita sulla storia delle fila al check-in:
quando, cioè, l'amica dell'amministratore delegato chiama la hostess
e, piangendo, anzi piangendo allarmata, le sussurra trattenendo il
bisogno di urlare che c'è un'emergenza, che l'aereo deve scendere.
Che le è esplosa una boccia. Dunque: natura morta. In fondo avevi
visto giusto.
Delia se n'era andata dall'appartamento di L. con la stessa faccia che la povera ragazza implosa aveva fatto sopra le nuvole. Fiera. Mortificata. Inviperita. Il dente che le era saltato poco prima se
lo teneva nel fazzoletto, ma già lo vedeva pendere da un filo di cuoio attorno al suo collo, insieme a quello che avrebbe fatto
saltare al dentista, con il pugno che stava architettando e che gli
avrebbe dato (o ma quanto daaaaato) la mattina seguente. Bastardo!
Buono a nulla! E fesso, ma quanto feeeeesso, lui che ci provava ogni
volta.
Delia detestava trascorrere tutto quel
tempo allungata sulla sedia, su quella specie di letto matrimoniale
freddo e sintetico, stesa come un insetto a cui lui, dall'alto ma con
la faccia vicinissima, guardava ovunque fuorché in bocca. Detestava
quella sua aria da amante consapevole che in una camera d'albergo ti si avvicina
perfettamente sbarbato con addosso una vestaglia scura con le
iniziali del nome (come se importasse davvero, un nome...) ricamate sul
taschino. Detestava essere nelle sue mani. Detestava le caramelle
all'anice che immancabilmente succhiava. Detestava il suo fiato
profumato con la forza. E detestava le telefonate del suo dentista
con il meccanico: brevi intermezzi durante i quali ripeteva mille
volte il nome Porsche, mille volte il numero 911, mille volte la
parola otto cilindri, e mille volte “cabrio”. Arabo per Delia.
Lasciasse perdere, effetto su di lei zero. Idem per l'orologio. Per i
moccassini. Per la t-shirt. Per i capelli
(doveva-esserseli-incollati-al-cranio).
Delia stava ormai salendo i gradini di
casa. Si era fatta la strada a cento all'ora. Tutta a piedi. Aveva
camminato sul corpo del suo dentista. Aveva infierito. Un tacco dopo
l'altro. E aveva sperato di fargli moooolto male. Ora, mentre girava
la chiave nella serratura, si chiedeva perché continuava ad andarci,
se lo detestava tanto. Se lo era chiesto piu' volte, in passato. Ci andava perché tutte le sue amiche lo adoravano e tutte dicevano che faceva
miracoli. L'unico miracolo di cui lei avrebbe ammesso l'esistenza era
la moltiplicazione vertiginosa dei quattrini: che il dentista
guadagnava a palate. Domani l'avrebbe steso. Gli avrebbe preso il
dente che avrebbe senza dubbio ceduto sotto l'impeto del suo dritto
sinistro. E se ne sarebbe andata. Un trofeo meritato. Da mostrare ad
A. Perché A. era il dentista da cui avrebbe sempre voluto andare. E
questa volta avrebbe preso il coraggio a due mani e lo avrebbe
chiamato. Non lo aveva mai fatto, a causa di quella volta. Si erano
incontrati, una decina di anni prima, in una discoteca. Si erano
parlati fino alle quattro di mattina. Erano rimasti senza fiato.
Entrambi. Si erano raccontati. E A. le aveva spiegato che faceva il
dentista. Non si erano mai piu' rivisti. Delia era rimasta
affascinata da quell'uomo. E paralizzata. C'era un fondo denso di
inquietudine che l'aveva convinta a tenersi alla larga.
Un'inquietudine che lo sguardo di A. aveva risvegliato in lei.
Delia era ormai sotto la doccia. I
pensieri erano finiti nello scarico, insieme alla schiuma dello
shampoo.
A qualche isolato di distanza, nelle
orecchie di L. risuonava ancora il lamento del telefono che segnalava
l'interruzione della linea. Era indeciso se ignorare le parole
concitate di A. dall'altro capo del filo e rimettere il disco di Miles Davis oppure prendersi
una birra ghiacciata dal frigorifero. Non aveva fatto in tempo a
decidere, perché qualcuno alla porta stava bussando. Nessuno bussava
a casa di L. a quell'ora. Mai.
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