Volevo non scrivere. Non di questo.
Attendere e lasciare che tutto finisse dentro quello che sto
preparando ma non per il Blog. Ora devo farlo. Scriverò, qui di
seguito, di due argomenti: il primo è semantico, riguarda l'utilizzo
delle parole e il significato che esse hanno sulla realtà e su di
noi, sul nostro modo di registrarla. Il secondo riguarda il bambino
siriano senza vita fotografato su una spiaggia turca.
Primo argomento. Accendo raramente la
radio, a casa (quando sono in Ticino) o in macchina. Questa mattina
l'ho accesa (in macchina). In un notiziario RSI (ma non sono i soli,
i più blasonati tuttavia) si parlava degli esseri umani in fuga (la
maggior parte) dalla guerra e fermi a Budapest, in Ungheria. La voce
diceva (vado a memoria, ma ho una buona memoria) che si erano messi
in cammino verso l'Austria dopo che altri “avevano preso d'assalto
alcuni treni”. Prendere d'assalto: la scelta di questa espressione
è terrificante e pericolosa, irresponsabile. Nessun essere umano
sulla via dei Balcani ha mai “preso d'assalto” un treno, non in
Macedonia, non in Ungheria, da nessuna parte. Nessuno ha mai
imbracciato un'arma o un bastone o altro per farlo. Nessuno si è mai
comportato, nemmeno in senso figurato, in questo modo. Tutti hanno
cercato, disperatamente, e cercano, disperatamente, di trovare un
posto, per primi, su un treno. Producendo scene di sconvolgente
agitazione e anche di violenza umana: esseri spinti dall'istinto di
sopravvivenza.
Utilizzare, riferita ai rifugiati in
cammino, a chi cerca rifugio, l'espressione “prendere d'assalto”
equivale a veicolare, al pubblico, una immagine minacciosa di questi
esseri umani.
L'”informazione” sta manifestando
il proprio fallimento nel raccontare questo storico flusso
migratorio: non sa raccontarlo. Non sa trovare le parole giuste,
corrette. Si aggrappa a formule fatte, precostituite. E pericolose:
per l'effetto che producono, anche inconsapevolmente, su chi le
ascolta. La fretta e l'ignoranza.
Utilizzare questa espressione riferita
ai rifugiati è, anche, un modo per significare la “nostra”
ostilità alla loro richiesta di accoglienza.
Secondo argomento. La fotografia del
bambino siriano senza vita su una spiaggia turca. L'”informazione”
non sa come comportarsi di fronte alle immagini. Ho spiegato, in
un'intervista, cosa penso di quelle testate (nazionali e
internazionali) che hanno scelto di pubblicarla accompagnandola con
editoriali che chiedono scusa ai lettori per la decisione presa. Come
se i lettori si aspettassero qualcosa di diverso, dai mezzi di
informazione, che non la descrizione della realtà. Il racconto di
come va il mondo.
Aggiungo, qui, un'ulteriore
riflessione: la fotografia del bambino siriano fa (finalmente)
emergere la crisi del “sistema informazione” occidentale. Che si
è ormai addormentata, schiava dei contabili (che impongono tagli sul
racconto del mondo) e di chi la realtà non sa vederla se non
attraverso i luoghi comuni (per poi, attraverso questi stessi luoghi
comuni, raccontarla al pubblico dei lettori, ascoltatori e
spettatori). C'è un sacco di gente che non si schioda dalla sedia di
una redazione e che si è messa a ragionare sul senso o meno della
pubblicazione di questa immagine. La democrazia è di manica larga e
di bocca buona.
Eppure, da reporter che ha trascorso un buon pezzo di vita sul terreno (pagando in tutti i sensi questa scelta individuale e dettata da nessuno se non da me stesso: la realtà ti corrode, ti consuma, dentro), scrivo che: il significato di questo mestiere è mostrare e raccontare il mondo. C'è chi fotografa attrici e calciatori su una spiaggia vippaiola, c'è chi dedica paginate e ore di diretta radio e TV a una partita di calcio, alle accelerazioni di un atleta dopato, alle sbandate inquinanti di un'automobile in corsa, e c'è chi fotografa i rifugiati in viaggio verso la speranza di una vita normale, come quella che viviamo noi, dalle nostre parti. Appartengo alla seconda categoria. A Ramallah, Gerusalemme, Gaza, Bagdad, Tikrit, Kabul, in Georgia, a Kiev, a Beirut, a Tiro, altrove e altrove e chissà dove ancora ho filmato e fotografato corpi senza vita: uomini, donne, bambini. Ho raccontato, nella mia vita, e ancora lo faccio, guerre e conflitti: il comportamento dell'essere umano. In ogni fotogramma filmato, in ogni scatto ho preso e prendo in consegna la vita delle persone ritratte, vive o morte: me ne faccio garante. Prometto a loro che mi batterò, fino all'ultimo, affinché la dignità della loro vita, di quella che continua sotto le bombe o di quella che una bomba ha spezzato o un pezzo di mare ha spezzato, diventi parte della vita degli individui che guarderanno queste immagini. Metto la mia vita e il prezzo che ho pagato quale garanzia del rispetto portato alle vite filmate e fotografate e raccontate.
C'è questa promessa, in ogni immagine
che realizzo. Una promessa che, ogni volta che la pronunci, ti mangia
un pezzo di vita. C'è un prezzo da pagare, quando scegli di fare il
mestiere del reporter.
Ecco perché contesto, nel modo più fermo, le riflessioni – quelle più elaborate e quelle più sempliciotte – espresse sulla stampa internazionale, ma anche su quella locale, ticinese (che mi è capitato, essendo in Ticino, in questo momento, di leggere). C'è, nello sforzo argomentativo di chi sostiene che l'immagine del bambino siriano non andava pubblicata, un trucco malriuscito e malcelato: il trucco della censura accomodatrice.
Chi fa il reporter, dedicando a questa
professione e al significato che ha tutta la propria esistenza, non
censura: vuole che si mostri tutto. Per fare vedere e capire, a chi
si trova lontano e ha altre cose da fare, un'altra vita alla quale
badare, la vita (e la morte) degli altri. È questo il senso del
giornalismo: del giornalismo vissuto sul terreno, non di quello che
ha le chiappe inchiodate a una sedia.
Se, dalle testate locali, lasciamo che
si dica che la realtà non va raccontata tutta, che il racconto della
realtà ha dei limiti, accettiamo che l'informazione diventi uno
strapotere libero di decidere su che cosa dire e che cosa tacere, su
come raccontare il mondo oppure non raccontarlo. Oggi non lo si
racconta più.
Mi auguro, nel modo più forte, che in
Ticino si formi una generazione di reporter da terreno, di giovani
che hanno voglia di sacrificare la propria vita per questo mestiere
(molti mi scrivono, manifestando questo desiderio, ma io sono un
solitario, uno che va in giro da solo, fatico a prendermi cura di
loro, ci sarebbe, magari, qualcuno in grado di dare, a queste
aspirazioni e a questi talenti, lo sbocco che meritano, il lavoro che
meritano, ci sarebbe qualcuno di interessato?) Auguro a tutti di
restare vivi, ma a tutti dico che c'è un prezzo. Il prezzo che
paghiamo, sul terreno, con la nostra vita, con ciò che alla nostra
vita succede, con i malanni che ci prendiamo, con la vita consumata
che ci portiamo dietro è la dichiarazione di onestà che pronunciamo
di fronte ai vivi e di fronte ai morti che fotografiamo e filmiamo e
consegnamo a un taccuino. Anche di fronte ai rifugiati in cammino e a
chi, invece, non ce l'ha fatta.
Nel mio viaggio dalla Grecia alla
Svezia ho incontrato migliaia di persone e ho parlato con decine e
decine di loro. Molte mi hanno chiesto perché le fotografassi e che
cosa la mia immagine avrebbe cambiato nella loro esistenza. Ogni
volta ho spento la videocamera o la macchina fotografica e mi sono
messo a spiegare loro il senso del mio mestiere. E' a loro che
dobbiamo una spiegazione. Non hai lettori o agli spettatori per avere
scelto di pubblicare una fotografia che mostra la realtà. Che mostra
che cosa succede agli esseri umani in fuga dalla guerra in questo
medesimo istante. I lettori, il pubblico capiscono: commentano,
partecipano, si esprimono. Non producono editoriali: frasi semplici,
soltanto queste. Alle redazioni piacciono poco, le frasi semplici.
Eppure bastano: testimoniano ai vivi in cammino e ai morti la
consapevolezza e il senso della dignità che non hanno mai smarrito.
Questo e non un altro è il lavoro del reporter. Il resto sono chiappe incollate a una sedia.
Qui di seguito, uno scatto che ritrae
Fatma, una bambina irachena di 7 anni nata con una grave
malformazione del cervello a causa delle bombe alleate sganciate
sulla sua città dall'inizio della “guerra di democratizzazione”
nel 2003 (spiegazione fornita dalla famiglia). Ne ho già parlato,
sul Blog e in alcuni articoli. Il giornalista e una sua collega,
subito dopo questo scatto, si sono adoperati affinché Fatma e la sua
famiglia potessero salire su un treno, a Gevgelija, in Macedonia, in
modo umano. È successo, in modo più o meno umano, grazie anche
all'aiuto di un interprete dell'ONU (UNHCR). Fatma non ha preso
d'assalto un treno. E nessun altro, in verità. Volevano, tutti
quanti, soltanto salirci. Erano in migliaia e il treno aveva due
vagoni.
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Grande,coraggioso e onesto reporter.
RispondiEliminaGrande,coraggioso e onesto Reporter
RispondiEliminaChe dire se non: ecco uno che finalmente sa descrivere, parola per parola tutto quanto è il mio sentire, il mio modo di vedere e pensare. Uno che del suo mestiere ne ha fatto una missione. Non lo conoscevo; ora per caso ho letto quanto pensa e scrive su una delle tante tragedie odierne e voglio seguirlo perchè mi fa vedere con semplicità e senza tanti giri di parole qual'è la realtà. Mi è piaciuta la frase del "trucco della censura accomodatrice". Lui mi fa comprendere la differenza tra pubblicare o meno la foto del bimbo curdo: non pubblicare la foto si ha l'idea nebulosa e lontana della tragedia e si pensa " sì, povera gente, ho sentito...quanti guai stanno passando, poi ritorno a pensare ai miei fatti più o meno impellenti. Pubblicarla : Oh, mio Dio, com'è possibile che accada questo?! Cosa posso fare per evitare che accada ancora e cosa devo fare per aiutare questi diseredati a trovare finalmente pace?! La mia coscienza mi impone di far qualcosa e mi fa comprendere quanto futili siano i miei fatti più o meno impellenti. Bravo il reporter; giusto pubblicare. Solo così si può smuovere la coscienza degli ipocriti che non vogliono vedere ma...caso mai, appena sentire in modo da essere in pace con se stessi. E dell'idea di questi ultimi non abbiamo che farcene.
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