Quegli oggetti che si lasciano alle spalle.
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(c) 2015 weast productions |
I giubbotti galleggianti, un bracciolo: messi ai bambini che attraversano il mare dalla Turchia alla Grecia. Me ne sono portati a casa alcuni.
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Mi sono portato a casa anche il filtro dell'obiettivo a pezzi, dopo essere salito su un treno in Macedonia, con la gente che spingeva e schiacciava e si schiacciava e lottava e urlava e piangeva per fare i tre scalini che portavano dentro la carrozza.
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Diamo per scontata l'esistenza di una "crisi dei migranti" di cui parlano politica e mass media. "Crisi" è una parola. "Migranti" è una parola. C'è, in realtà, una crisi del linguaggio. Come raccontare le decine e decine di migliaia di persone in cammino? Le situazione dentro le quali sono costrette a vivere? La realtà dalla quale fuggono?
Senza predica: l'Europa ha chiuso le ambasciate nei Paesi dove queste persone avrebbero potuto chiedere ufficialmente asilo, protezione dalla guerra (i siriani, gli iracheni, gli afgani). Quando arrivano, in Europa, vengono accolti, alla maggior parte di loro viene concesso asilo. Se lo devono, però, guadagnare. Diciamo: sudare. La "crisi" alla quale assistiamo (in Grecia, in Macedonia, negli snodi più drammatici. La Macedonia ha chiuso ieri le frontiere agli esseri umani in cammino) è stata generata dalla decisione di disattivare il meccanismo di richiesta d'asilo al di fuori dell'Europa. Se i conti tornano, sembra una "crisi pensata", un "crisi preparata". Per generare che cosa? Il disordine, forse. La diffidenza, forse. L'indifferenza, forse. La circolazione e l'accettazione crescente di parole e pensieri fino a ieri non accettabili e non proponibili, forse. La messa fuori gioco di chi la pensa in modo diverso, forse. La convinzione che chi sta bene starà bene per sempre e chi sta peggio si arrangi, forse. E, soprattutto, l'idea che a noi non succederà mai di trovarci in queste condizioni, forse.
È in "crisi" anche il linguaggio dei mass media (lascia stare della politica, in chiave internazionale): non racconta, ripete. Serve un linguaggio che sappia recuperare il senso della realtà, individuare le cuciture, gli elementi che si tengono. Serve un linguaggio per raccontare queste migliaia di persone in cammino. La loro vita. Per fare in modo che ce la portiamo a casa, come un oggetto trovato durante un viaggio, su una spiaggia, o un filtro fotografico a pezzi. Non è soltanto un ricordo: per infinite ragioni non possiamo separarcene, significa qualcosa per noi. Anche, vedi un po' che strano è il mondo, per la nostra vita.
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