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Sul cellulare arriva un messaggio, due minuti fa. Dalla Germania. Un ragazzo curdo di Siria che avevo incontrato dapprima in Grecia e poi di nuovo in Serbia. È arrivato, non lontano da Francoforte, in un campo di accoglienza. Si fa vivo: significa che si è fidato del giornalista che faceva domande e scattava fotografie. Dice che forse fra qualche giorno lo sposteranno di nuovo. In un campo diverso. “Campo” è una parola difficile in Germania. Lui, tuttavia, è contento. In Siria faceva l'ingegnere. Non il pezzente. Faceva l'ingegnere.
Stanno chiudendo tutto. Ungheria:
chiusa. Croazia: quasi chiusa. Slovenia: chiusa. Gli altri paesi?
Chiusi, anch'essi?
Si constata una tendenza, anche in
Europa centrale, anche in Svizzera: quella che esprime un giudizio
confessionale su chi è più profugo di un altro. È pericoloso oltre
che ingiusto giudicare i profughi sulla base della loro religione. Lo
si sta, tuttavia, facendo con le campagne di aiuto lanciate e
riservate a questi piuttosto che a quelli, ai cristiani piuttosto che
agli altri, musulmani, yazidi, sciiti afgani, sunniti iracheni, ecc.;
e lo si sta facendo parimenti con criteri di giudizio di carattere
confessionale molto spesso applicati nella selezione destinata a
decidere chi entra e chi invece se ne sta fuori. È il modo più sempliciotto di cadere nella trappola preparata da altri, quelli che ti frustano mille volte per la religione, per non dire peggio. Vogliamo, per davvero, finirci in questa trappola?
Quello confessionale è un criterio
(esplosivo) che – parlando della Siria, che produce il numero
maggiore di profughi, di richiedenti l'asilo - in quel Paese non è
mai esistito prima della mattanza di cui siamo (ma lo siamo davvero?)
testimoni. Se viene applicato ora, dall'Occidente, si innesca una
miccia artificiale: costringiamo chi ci chiede aiuto a professare una
fede, nel momento stesso in cui temiamo, di queste persone, proprio
la fede.
E inoltre (e per dirla in modo diverso): chi fa questo si rende complice delle cieche
strategie di coloro (serve fare i nomi?) che hanno trasformato la
Siria (senza curarsene: anzi, auspicando questo esito) in un teatro
di guerra per procura. È un atteggiamento da denunciare e
combattere. Se acconsentiamo a indirizzare gli aiuti secondo criteri
e pregiudizi confessionali, un giorno la Storia (e non soltanto la
Storia) ci chiederà conto di questo. Ci chiederà perché lo abbiamo
fatto.
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