Raccontare


SPAZIO ALLE STORIE CHE NON SONO STATE RACCONTATE ALTROVE. ALLE PERSONE INCONTRATE E RIMASTE SUL TACCUINO. OPPURE A QUEI PENSIERI CHE MI PASSANO PER LA TESTA VELOCI COME UNA PALLOTTOLA: SE NON LI FERMASSI, LI PERDEREI.

martedì 27 marzo 2012

Apologia dell'inquietudine.

(c) 2012 weast productions

Pubblico la prima puntata di un lungo - ma insomma, non esageriamo... - racconto che un lettore ha deciso di spedirmi. Consegnandomi l'esplicita autorizzazione a metterlo in linea sul mio Blog, ma chiedendomi la riserva dell'anonimato. Siccome, a lettura terminata, condivido la sua visio mundi, eccolo qui, in rete, questo racconto che definisco e intitolo Apologia dell'inquietudine. Antitesi alla celebrazione del conformismo e resistenza all'ontologia dell'adattamento. Dilagano. Entrambe.


Quando A. era tornato a casa (finalmente. Stanco) si era accorto che qualcuno era entrato nella sua testa. Doveva essere capitato nelle ore piu' avanzate della mattinata. Poco prima di mezzogiorno. Avrebbe giurato (se glielo avessero chiesto. Nessuno glielo avrebbe mai chiesto, tuttavia) che era stato fra le 11.20 e le 11.55. Ne era sicuro poiché ricordava, di quella parte di tempo della giornata, di avere avvertito una strana vertigine. Era stato un attimo. Non aveva dato alcuna importanza a questa sensazione. Era uscito di casa con nello stomaco un caffè soltanto. Stanchezza. Doveva essere stanchezza. Ora, a casa, con le chiavi in mano che gli pendevano dall'indice della destra, la porta alle sue spalle semichiusa, capiva. Non era stata la stanchezza. Erano stati loro. Erano entrati. Si era sempre detto che se doveva succedere allora succedesse tardi, sui cinquant'anni, fai sessanta e affare fatto. Non a trentacinque. Non a trentacinque! Non-a-trenta-cinque. Se lo stava ripetendo nella testa che ormai non era piu' la sua. La sua testa soltanto. Il salotto di casa gli sembrava diverso. Ordinato, lucido, prevedibile. E tuttavia: inspiegabile. Il mondo che lo circondava (il suo mondo. Il suo) aveva smesso di parlargli. Di significare qualcosa. Di suscitare interrogativi, di chiedere risposte, di essere inquietante. Erano entrati nella sua testa e gliela avevano cambiata. C-a-m-b-i-a-t-a. Viveva dentro un corpo sano, il medico glielo aveva certificato. Muscoli ben formati. Tendini flessibili. Arterie come autostrade senza traffico. Le ossa come cemento armato. Eppure aveva cominciato a vedere il mondo come lo vedevano loro. Quelli che gli erano entrati nella testa. Piatto. Uguale ogni giorno. Muto. Scolorato. Toglierli, t-o-g-l-i-e-r-l-i sarebbe stato un bel problema. Una missione impossibile. O quasi. Non aveva mai visto il mondo come lo vedevano gli altri, a-l-t-r-i. Non aveva mai accettato di vederlo cosi'. Piatto. Fatto di battute spente. Di sguardi senza profondità. Di azioni senza energia. Di parole senza fondo. Un fondo vero. Di immagini senza curiosità. Aveva bisogno del suo amico L. Decisamente. Se voleva uscirne sano (sano: di nuovo) era a lui che doveva rivolgersi. (1/continua)

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