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Nessuno potrà dire: non sapevo. Quando i libri di Storia scriveranno – diosantissimo se lo scriveranno – che nemmeno abbiamo chiuso gli occhi: siamo stati a guardare e basta. E che anzi ci ha presa una paura brutta, giustificabile diranno, e a ragione, eppure così sproporzionata alla sofisticatezza della società nella quale viviamo e dei mezzi (dei mezzi per fare tutto: togliere e ridare la vita) di cui disponiamo. Scriverà, la Storia, che abbiamo accettato di ascoltare quelli che urlano più forte, quelli con il fiato pesante, quel fiato che ti schiaccia come una cicca. Scriverà che abbiamo definito il loro agire “politica” e concluderà che abbiamo sbagliato. Aggiungendo, nel riflettere anche su sé stessa, che in quanto Storia non fa che ripetersi. Scriverà che abbiamo pronunciato parole di benvenuto nei confronti di discorsi sconsiderati e disumani, smarrendo così la nostra umanità. Che abbiamo piegato il nostro pensiero alla foga vuota di coloro ai quali questo stesso nostro pensiero era inviso, perché lo temevano, e come tale lo hanno combattuto. Pensare è un atto di libertà. Di resistenza. Non è nemmeno colpa loro: ciascuno decide dell'esperienza del mondo che desidera compiere. C'è chi ne è sprovvisto. Abbonda (fra parentesi) questa assenza di esperienza del mondo fra chi urla. Fra chi urla frasi monche.
La Storia scriverà che ce la siamo
fatta sotto di fronte a qualche teppistello criminale che
improvvisamente ha manifestato la sua codardia imbracciando un fucile
o facendosi saltare in aria. La Storia scriverà che non abbiamo
avuto il coraggio di guardarli in faccia, questi perdenti, che non
abbiamo avuto il coraggio di andare fino in fondo, per capire da dove
vengono e come si possono neutralizzare. Che non abbiamo avuto il
coraggio di combatterli restando liberi, restando persone libere, non
da prostrati. Combattere: va bene questa parola. La Storia
scriverà che abbiamo preferito delegare la nostra resistenza a
qualcuno che nemmeno conosciamo, anche se lui (o lei) conosce tutto
di noi. E magari non conosce niente (o troppo poco) di quelli che
deve combattere per davvero. La Storia scriverà che abbiamo smarrito
il coraggio che deriva dal nostro restare umani. Il coraggio di
combattere i criminali sgangherati e perduti e perdenti chiamati
terroristi e il coraggio di conservare il senso che ci lega
all'altro. Agli altri. Quelli, si capisce, che questo senso lo meritano.
La Storia scriverà che di fronte al
bombardamento del campo profughi di Idlib (venerdì 6 maggio, di
pomeriggio), nel nord della Siria, a due passi dal confine con la
Turchia, siamo stati zitti. Sono stati zitti i politici che sempre
urlano. E zitti i politici che diversamente si prendono (e sembra piacergli) l'etichetta di
buonisti. Zitti come randagi con la coda fra le gambe. Zitti tutti.
Trenta morti, fra i quali donne e bambini, con le prove provate delle
immagini (quelle che vi – signore e signori politici, ma non
soltanto, signore e signori e basta – piacciono così poco, perché
parlano, le immagini parlano). Zitti. Non c'era nemmeno, in quel
disperato campo profughi di disperati che non hanno chiesto nulla,
zero, zero, zero, all'Europa, che non hanno chiesto che di restarsene
lì, in quel posto maledetto e fetido, e lo scrivo perché so di cosa
parlo, non c'era nemmeno un medico pediatra da trasformare in
martire. E sul quale scrivere articoli densi di retorica, fate pure di melassa. Da metterci la firma in grassetto, sotto l'articolo, da
costruirci sopra una terrificante e vergognosa autocelebrazione giornalistica. Non
c'era nessuno da celebrare, fra quegli sconosciuti e povericristi.
Nulla da celebrarsi.
Erano tutti sfigati. Una bel gruppo di
sfigati. Finiti in cenere. Cosa vuoi che sia? La cenere. La Storia
scriverà di questa cenere. E chiamerà tutti noi a risponderne. Cosa
diremo a chi leggerà le pagine a venire? Che non c'eravamo? Che
stavamo trascorrendo il ponte dell'Ascensione? Che stavamo guardando
una partita di calcio? Seguendo una delle infinite migliaia di ore
dedicate (concesse) allo sport in televisione? O le ore concesse
(come si fa?) alle previsioni del tempo? O (come si può?) alle
notizie sul traffico? Sempre aggiornate quelle. Minuto dopo minuto.
Una macchina incolonnata dopo l'altra, su questa o su quell'altra
autostrada.
E i morti, signore e signori? E. I.
Morti? Non nel senso di morti. Nel senso di quello che i morti
sarebbero potuti diventare nella vita. La loro, si capisce. Non la
nostra. Che, per dirla come va detta, e va detta per una volta, se ne
fotte. Chi sarebbero diventati, i bambini morti? Non soltanto a
Idlib. Ad Aleppo, anche ad Aleppo, sotto le bombe, le bombe di tutti,
del regime e degli altri, che sia chiaro. Chi sarebbero diventati?
Pediatri? Magari pediatri. Avvocati? Magari avvocati. Meccanici.
Magari meccanici? Madri? Magari madri. Qualcuno darà, un giorno, in
televisione o alla radio, la conta precisa, minuto per minuto, dei
morti ammazzati nelle guerre?
La resistenza contro chi ci ha portato
la morte (la morte nelle città d'Europa) non deve passare attraverso
la nostra deumanizzazione. Io penso questo, per lo zero che valgo. Io
voglio combattere i mocciosi criminali e bastardi che hanno portato e
vogliono portare la morte in Europa. So come farlo. So che va picchiato duro. A volte va picchiato duro. Nel farlo,
tuttavia, non voglio – e mi batto affinché ciò non avvenga –
smarrire il mio essere umano. Umano nei miei confronti. E nei
confronti degli altri. Nei confronti della Storia. Del giudizio che
essa darà: di me e di tutti noi. E, per prendere dei morti a caso,
nei confronti dei morti di Siria. Si alzi uno, uno dei politici nato
nel mio stesso paese, e dica: basta. Lo dica. Dica: basta. Basta.
Basta morti.
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