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Sola. Che comunque si fa per dire. Sei
sola, quando fumi una sigaretta? O quando, dentro la città, avanzi
sicura e senza passato? Una trasparente perfezione recuperata
(sottratta: andrebbe uguale?) all'equilibrio che tiene sui piatti
della vita la salute e il lavoro. Portate uniche che ti apparecchi
una volta soltanto (che sia, “soltanto”, imparentato con “sola”?)
nella vita. Perché serve il tabacco, quando vuoi capire? Tabacco,
signori! Capire quello che ti passa nelle orecchie, ad esempio, ora,
quel si bemolle minore che davanti ha il umero uno e più avanti
ancora il nome di Tschaikowsky, e davanti davanti, il nome del
cameriere che ha la sua età e che nel posare come fosse (è, forse?)
una dichiarazione non d'amore (troppo vecchio), ma, vedi, quasi, e
verrebbe sul serio da dire, un consiglio da rudere, fa la sua faccia e dice: ascolta. Ascolta
la vita.
Che strano, quando uno si sente in
grado di dare consigli. Lo mettono sempre nelle sale posteriori,
quelle meno in vista, recondite si direbbe. Il cameriere ha un
accento strano, duro e rotondo, verrebbe da dire romantico. E
nottambulo. Russo? Dopo le lumache (dopo) e prima del pesce al vapore
(prima) viene fuori il nome di Svjatoslav Richter. Fermati vita, ora.
E ascolta: quasi fosse la memoria un argine, una chiusa, capace
tuttavia, nella prigione in cui si trova costretta, di portarti un
nome. Un altro. Tschaikowsky, proprio lui. Girano, incollate dentro
le 33 rotazioni al minuto, le terrificanti intuizioni incapaci
soltanto di evitare i granelli della polvere. Le quali anzi producono
il senso del rogo, di un fuoco che si consuma, dello scoppiettio dei
legni. Del legno esiguo, diretto, e sembra pazzia, dall'invisibile
bastoncino di Herbert.
Se soltanto. Se soltanto intuissimo le
radici. Il senso della combinazione. L'esorbitante estasi di questo
concerto per pianoforte, che ha per radice l'Ucraina.
Alla quale, oggi, qualcuno vuole mandare armi. Sul disco, che in
questi minuti sta girando, stremato nello sforzo di dire qualcosa,
c'è scritto: “Deutsche Grammophon”. La casa editrice. Se posso,
per quello zero che capisco, direi ai tedeschi di fermarsi. Di
ammettere gli sbagli compiuti da un anno a questa parte, in piena
(eppure cieca) consapevolezza.
E tu, che sei sola e avanzi dentro la
città. Tu che ascolti questo tragico e meraviglioso racconto in
musica, che fai? Ti fermi? O te ne vai, come sembri volere fare,
quasi avessi già trovato l'onda maestra delle conclusioni? Inevitabili e stonate, non ascoltabili. Fasulle. Portatrici di una
chiusa che non ha nulla a che fare, e pure come anticipata nel gioco
di prestigio che porta il disco da un lato all'altro, dal lato A al
lato B. Stessa distesa di polvere, a produrre si direbbero spari.
Nemmeno fosse la vita: girabile e rigirabile, al suono delle bombe.
Quelle, credimi, che stanno cadendo. Da una parte e dall'altra. Sulla
copertina del disco, dopo “Deutsche Grammophon”, c'è scritto
“Gesellschaft”: società. Che si possa fare qualcosa anche noi,
per fermarla, questa guerra? Raccontarla, forse, come stiamo facendo?
E tu? E tu? Sola, come sei, in mezzo
alla città che si avvita attorno ai suoi corsi cristallini, ti
andrebbe di provarci? Ci stai provando? Ti ascolto. Dimmi quello che,
dentro, senti.
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