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Le era piaciuto quel momento. Lui l'aveva guardata e lei, ossignore, adesso cosa faccio. Teneva gli occhi incollati sui guanti rosso acceso che stringeva nella mano sinistra, stringeva e stringeva quasi volesse prendere se stessa per il collo e con la bocca a due centimetri dalla propria bocca urlarsi addosso di non fare come tutte le altre volte, quando il cuore aveva cominciato a batterle fooorte, davanti a un uomo che forse avrebbe potuto essere quello della sua vita, se soltanto non l'avesse buttato fuori subito, ad essere precisi nemmeno lo aveva fatto entrare nella sua vita, girando sui tacchi (ah, le piacevano le scarpe con i tacchi, davano un ritmo alla sua camminata), anzi sussurrando, prima di girarsi, un “ciao” che sapeva di paura. Perché paura? La stessa che le si materializzava in quell'istante nello stomaco, attraversava i polmoni e si allungava, annidandosi per finire nella gola, proprio lì quando si trattava invece di parlare, di dire almeno una mezza frase. Le toglieva le parole, la forza di pronunciarle, la voce. Forza, ragazza, non ora, non questa volta. I suoi occhi si staccano dai guanti, gettano la zavorra e finalmente liberi da un peso estraneo si mettono in movimento.
"L’amavo, insomma, ed ero infelice. Ma come avrebbe mai potuto capire questa mia infelicità? ci sono quelli che si condannano al grigiore della vita più mediocre perché hanno avuto un dolore, una sfortuna; ma ci sono anche quelli che lo fanno perché hanno avuto più fortuna di quella che si sentivano di reggere." Italo Calvino
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