IL SENSO DEL TACCUINO
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Un curriculum vitae non è un'autobiografia: se lo fosse dovresti scrivere un libro quando cerchi lavoro. Il problema è che non lo leggerebbe nessuno. Quelli delle risorse umane non leggono. L'idea le era venuta a Beirut. La città si presta alle idee. O alla loro totale assenza. Era tornata in albergo. Aveva trascorso quattro ore fra aperitivo, cena e dopocena con il responsabile delle risorse umane di un importante gruppo di telecomunicazioni con sede principale a Dubai. Si erano dati appuntamento nella sola città raggiungibile da entrambi senza affrontare lunghe ore di volo. Quelli del gruppo cercavano qualcuno per la sicurezza, era venuta a saperlo attraverso un amico. Lei, di sicurezza qualcosa sapeva. A cena, quando lui le aveva chiesto di fornirle un curriculum vitae, lei l'aveva presa larga, cominciando da quando era bambina e giocava soltanto con i maschi, mai con le sue coetanee. Da ragazza, aveva aggiunto, aveva continuato a giocare con i maschi, fino al giorno in cui aveva capito che si poteva anche frequentarli, incontrarli e baciarli di nascosto.
Si era resa conto che un curriculum vitae non è un'autobiografia nell'istante in cui l'uomo che le stava di fronte, dall'altra parte del tavolo al ristorante, aveva cominciato a guardarla in modo strano. Come se l'argomento, ormai, non fosse più il posto di lavoro a Dubai. Lo aveva spaventato. Gli aveva raccontato troppe cose, troppa vita, troppo della sua vita. La faccia di lui aveva cominciato a cambiare quando lei, ormai, stava illustrando gli anni più recenti della sua vita, cose, insomma, accadute quattro, massimo cinque anni prima. Forse, stava pensando seduta sul grande letto della camera d'albergo, scalza e con addosso soltanto una maglietta, non avrebbe dovuto menzionare il fatto che lei aveva ucciso. Ucciso, sì. Non per gelosia (si dice che le donne, solitamente, uccidano per gelosia) non per interesse finanziario (anche qui: si dice che le donne, se uccidono, uccidano per sete di denaro) e nemmeno per follia (si dice anche questo delle donne). Lei aveva ucciso per convinzione: in guerra.
Per illustrare all'uomo che le stava di fronte i dettagli di questa parentesi della sua vita non c'era più stata l'occasione. Il dopocena lo avevano trascorso insieme in un bar alla moda, con la musica alta e, soprattutto, con lui che aveva ormai deciso che per il lavoro in questione non era idonea, ma per andarci a letto quella notte sicuramente sì. A volte, pensare troppo è sconveniente. Le idee fisse finiscono con l'essere leggibili. Lei glielo aveva letto in faccia, come se improvvisamente il responsabile delle risorse umane si fosse trasformato in un gobbo televisivo, in una pagina di Kindle, perfettamente illuminata, come se, fra lei e lui, avesse preso posto al tavolino che condividevano un suggeritore professionista, incaricato, più che di ricordare le battute, di fornire un'interpretazione dell'azione teatrale.
Poteva metterci una croce sopra, si era detta. Con quello, lei, a letto non ci sarebbe mai andata. Nemmeno morta. Tanto più che se le avesse chiesto ulteriori elementi sul suo curriculum vitae avrebbe corso il rischio di non reggerli. Quelli delle risorse umane, aveva concluso, detengono un potere che nasconde l'incapacità di capire l'essere umano. Lo aveva salutato ed era rientrata in albergo. A piedi. Le piaceva il rumore che facevano i tacchi delle sue scarpe nella notte. In qualsiasi città si trovasse. Le piaceva fumare camminando.
E: le piaceva quella città. Non Beirut, da dove era ripartita il giorno dopo, senza lavoro ma anche senza doversi fare una doccia lunga tre ore per togliersi dalla pelle l'odore di un altro. Le piaceva la sua nuova città. Era tutto diverso. Nessuno la conosceva e lei non conosceva nessuno. Quando usciva dal piccolo appartamento che aveva acquistato nel centro storico, un affare pazzesco non poteva fare a meno di concludere ogni volta che ci pensava, era come se cominciasse a vivere per la prima volta. E come se ogni volta ne avesse la trasparente consapevolezza. Quando mai le era successo, nella sua vecchia vita? Sentiva di essere una ragazza, nonostante i suoi anni non meritassero quella definizione, sebbene di poco. Gli anni magari no, lei invece se la meritava tutta. Aveva cominciato a contare gli uomini che la guardavano, che per strada le mettevano gli occhi addosso, alcuni erano affamati, altri invece comunicavano un tacito apprezzamento, meno aggressivo. Le piaceva che gli uomini la guardassero. Anche questo la faceva sentire viva, in modo diverso da prima.
C'era qualcosa d'altro, di insolito. Era una sensazione strepitosa: la sensazione della libertà. Quando si era davvero sentita libera, prima? Mai. Mai o quasi. Ora si sentiva libera. Avrebbe potuto decidere cosa fare, ogni giorno. Avrebbe potuto fare ogni giorno una cosa diversa. Le piaceva alzarsi la mattina presto e passeggiare nelle vie del suo quartiere. L'aria era fresca e quasi pulita, soltanto più tardi si sarebbe riempita del frastuono delle automobili e dei motorini, dell'odore del gasolio carburato male e di tante altre cose. Le donne, a quell'ora del mattino, facevano l'amore con le finestre aperte. L'aria trasmetteva le variazioni vocali del loro godimento. Ogni volta, ascoltandole, si immaginava che stessero partecipando a un concorso canoro trasmesso da una stazione radiofonica. Facevano a gara a quella che urlava di più e meglio. Se una emetteva una nota lunga e alta, quasi stridula, al punto che c'era da impensierirsi, subito un'altra rispondeva con una repentina e imperiosa variazione, tendente al basso, un colpo di voce breve e concentrato.
Quando i preti (la casa in cui abitava apparteneva al ricco clero locale) le avevano venduto l'appartamento, l'avevano avvertita, anzi (aveva avuto questa impressione) messa in guardia: il quartiere, la mattina presto, si animava e cedeva alle tentazioni, le avevano spiegato, non tutti arrossendo, ma due dei tre presenti sì, quelli erano arrossiti. Lei aveva provato a immaginare come avrebbero reagito se avessero saputo davanti a chi avevano poc'anzi cambiato colore. Come avrebbe reagito anche quello che non era arrossito.
I preti, per fortuna, non le avevano chiesto il curriculum vitae. E lei non era ricascata nella tentazione dell'autobiografia. Aveva quindi taciuto, senza provare sensi di colpa, il suo recente passato. Aveva taciuto i bersagli colpiti (colpiti per sempre), che solitamente erano delle teste o dei torsi, entrambi umani, e che per uno scrupolo contabile (soltanto per questo: non si era mai vantata dei successi ottenuti con i suoi compagni di battaglia ) aveva inciso con intagli minuscoli e precisi fatti con il coltello sul calcio del suo Berrett M107 A1, il fucile di precisione che era diventato il suo uomo nl corso degli anni, e non erano stati pochi, che aveva trascorso nella guerra di Siria. Erano stati insieme sempre. Lei gli parlava. Aveva l'impressione che lui rispondesse, con la precisione immancabile dei tiri messi a segno.
Lei era stata una delle pochissime donne siriane (c'è chi dice l'unica, ma lei nega) a combattere fra gli insorti in Siria, in particolare nella prima fase di questa guerra. I combattenti maschi la rispettavano, anzi sembravano temerla. Nessuno ci aveva mai provato, con lei. A perte uno. Uno che le piaceva. Non avevano mai combinato nulla insieme, nemmeno quando ne avrebbero avuta l'occasione, certi che nessuno li avrebbe scoperti. Avevano parlato, questo sì. Parlavano nelle lunghe notti, quando sul fronte si muoveva poco e si stava svegli fumando sigarette e bevendo lei tè e lui caffè. Litri di tè e caffè. E decine di sigarette, lei al mentolo, lui le Marlboro rosse che entravano dalla Turchia. Una di quelle notti, lei gli aveva detto che quando sarebbe finita la guerra sarebbero andati insieme a Istanbul, avrebbero preso una camera d'albergo e si sarebbero concessi ciò che non si erano concessi in Siria. Avrebbero smesso di uccidere e si sarebbero fatti di tutto, per dieci giorni. Si sarebbero fatti a pezzi. Senza uscire mai dalla camera. Lui, dapprima, non aveva capito. Lei gli aveva spiegato che avrebbero fatto l'amore.
Lui era morto due settimane dopo questa proposta notturna. Un cecchino, dall'altra parte del fronte, lo aveva dapprima accecato con il riflesso di uno specchietto, costringendolo a muoversi dentro il suo “nido”, ricavato in un'abitazione bombardata e disabitata. Poi aveva messo a fuoco il bersaglio. Aveva inspirato, trattenuto l'aria nei polmoni e fatto fuoco. Il colpo di fucile gli aveva attraversato la testa, entrando dalla fronte e uscendo dalla nuca. Un colpo pulito.
Racconta tutto questo seduta al tavolo di un caffè all'aperto nella sua nuova città, il cui nome chiede che non venga scritto. L'aria non è calda, ma si sta bene lo stesso. Indossa un giaccone di tela blu, dei jeans e degli scarponcini che, vagamente, ricordano quelli dei militari. Le dico che avrebbe potuto fare l'attrice. Mi sento un idiota subito dopo avere pronunciato questa frase. La donna che ho di fronte non è bellissima, ma è come se ciascun suo movimento, ciascun gesto suggerissero la sua straordinaria storia. Quella trascorsa, e quella che sta prendendo forma oggi. C'è qualcosa di irresistibile, in questa ragazza, che non è più una ragazza ma è come se lo fosse, come se fosse tornata a esserlo. Lei dà un'ultimo tiro alla sigaretta e la schiaccia nel posacenere. Non dice nulla, per un bel po'. E tu, cosa avresti potuto fare?, mi chiede, senza avvisaglie. Forse la stessa cosa che hai fatto tu, rispondo. Ride. Dice: ma la scriverai davvero, questa storia?